Progettare l’informazione: intervista con Andrea Resmini

Andrea Resmini è uno dei più stimati architetti dell’informazione italiani. Lavora in FatDUX, una delle principali firm europee di User Experience con sede a Copenhagen ed uffici in giro per il mondo. Ha una formazione da architetto ed industrial designer, ma è attivo da vent’anni nel campo dell’ICT e una decina d’anni che si occupa di architettura dell’informazione (da qui spesso abbreviata con “IA”, Information Architecture”, ndr.).

Ha contribuito alla realizzazione degli ultimi due Summit Italiani di IA ed è uno dei fondatori del network europeo di architettura dell’informazione. Non basta: ha fondato e coordina REG-iA, il working group sull’alta educazione e la ricerca in IA, e dall’anno scorso è nel Board degli Advisors dell’Information Architecture Institute. Con REG-iA e IAI ha lanciato il 21 marzo la prima rivista scientifica di IA, il Journal of Information Architecture, il cui primo numero sarà disponibile a giorni.

Cogliamo l’occasione del suo intervento alla manifestazione fiorentina Better Software dal titolo progettare l’informazione per porgli qualche domanda e introdurre i temi del suo seminario.

Il titolo del tuo intervento del 6 maggio alle 14 è “(Ri)progettare l’informazione”. Di cosa parlerà?

A. Resmini: Della necessità di affrontare la progettazione dell’informazione da una prospettiva rinnovata ed in linea con il dibattito internazionale.

Mi spiego: il mio intervento nasce da una esigenza personale di comunicazione. Negli ultimi anni ho parlato di architettura dell’informazione ad un considerevole numero di seminari, workshop e conferenze: di queste relativamente poche erano in Italia. Al Summit italiano abbiamo sempre pensato che dar voce alla comunità fosse più importante che ritagliarsi un proprio spazio personale: il nostro intervento come organizzatori è limitato all’espressione di un tema e di un taglio critico. E credo che la scelta stia pagando.

Ma partecipando alla discussione internazionale diventa immediatamente ovvio come l’Italia viva una situazione particolare: ad una attiva comunità IA, piuttosto presente anche fuori dai confini, non sembrano corrispondere una appropriata maturità e visibilità interne. Questo riguarda anche il mercato di riferimento.

Perché questa carenza di visibilità, secondo te?

La mia idea è che ancora manchino diffusamente i presupposti per comprendere perché si debba parlare di architettura dell’informazione e che, quando questi ci siano, regni tutto sommato ancora un po’ di confusione. Mi sembrava una buona cosa portare questo tipo di contributo ad una conferenza indirizzata principalmente ai decision makers.

Cosa vuol dire dal tuo punto di vista “progettare” l’informazione? Uno suppone che l’informazione non si progetti, ma si dia come acquisita, come dato di partenza. Perché e come sul web è importante progettarla?

Quando parliamo di progettazione dell’informazione non parliamo del singolo contenuto informativo, della singola notizia per così dire, ma proprio della struttura generale con la quale le informazioni vengono veicolate.

Se pensi ad un giornale, al fatto che esistano regole per avere una prima pagina con l’editoriale, la notizia principale su tre colonne, e poi la cronaca, la pagina delle lettere, la sezione dello sport, e che ognuna di queste obbedisca a precise regole interne riproposte ad ogni edizione, hai un ottimo esempio di architettura dell’informazione. Poi pensa ad un libro: convenzioni diverse. Ed infine pensa agli scaffali di un negozio. Un sito web può essere tutte queste cose, anche insieme, ed altre ancora che non hanno un diretto equivalente nella nostra esperienza quotidiana.

Per questo motivo è necessario progettarne l’architettura dell’informazione: per consentire alle persone di fruirne in modo efficiente. Un giornale organizzato come uno scaffale sarebbe forse interessante, ma probabilmente poco utile alla lettura. Quindi, si progetta l’informazione perché senza progetto non si dà reale comunicazione, ma solo estemporanea trasmissione di rumore.

E consentimi una precisazione: il mio discorso non si limita al web. Sono ormai un paio d’anni che io e Luca Rosati lavoriamo su quelle che sono tecnicamente definite esperienze ponte1. L’assunto base, citando l’Institute for the Future, è che “il cyberspazio non è un luogo in cui recarsi, ma uno strato saldamente integrato al mondo che ci circonda”.

E’ l’everyware di Adam Greenfield, o se vuoi quello che Morville ha seminalmente descritto dal punto di vista dell’IA in Ambient Findability. L’ultimo libro di Luca (Rosati, ndr.), Architettura dell’Informazione, racconta piuttosto bene questo processo.

Mi pongo dal punto di vista di un lettore qualsiasi e a questo punto mi chiedo: sì, è vero, ma libri, giornali, scaffali (e siti) sono già progettati. Cioè, esistono già figure professionali che da anni si occupano di costruirli per la miglior fruizione, per il miglior effetto. Anche per questo, a mio parere non viene percepita in Italia una funzione specifica dell’architetto dell’informazione. In cosa consiste la sua peculiarità? E’ una questione di metodi? Di ambito di ricerca?

Forse più di ambito che di metodi, per quanto, pragmaticamente, l’IA come definita da Rosenfeld e Morville è un’IA di metodologie e deliverables. Pensa ai wireframes, ai casi d’uso, o ai content inventory. L’ambito dell’IA è sicuramente lo spazio degli hyperlink, che è uno spazio nuovo, con caratteristiche proprie e peculiari, come abbiamo detto. Come esistono figure professionali che da anni si adoperano per il design dello scaffale, esistono e devono esistere figure professionali che si occupano della progettazione di questi nuovi spazi informativi. Gli architetti dell’informazione sono una di queste figure, anche se non certo l’unica.

E’ quindi insieme, forse, sia un problema di comprendere le peculiarità di un nuovo mezzo, sia una questione di maturità. Se centocinquanta anni fa fare il regista aveva un significato univoco, curare un allestimento di tipo teatrale, oggi il termine da solo può non essere sufficiente in alcuni contesti, poiché si può essere registi specializzati in cartoni animati, in programmi televisivi, o registi di clip musicali. Il processo ha richiesto tempo, e lo stesso sta accadendo adesso con il linguaggio della comunicazione in rete.

Il problema ricorda quello dell’usabilità web in Italia 10 anni fa. Quando ho aperto usabile.it, nel 2000, c’era in Italia una diffidenza verso i temi dello user centered design e in generale dell’osservazione dell’utente all’interno del processo progettuale sul web, che era orientato a logiche produttive basate su due grandi binari: quello informatico ingenieristico, e quello pubblicitario/comunicativo, ed entrambi non prevedevano un certo tipo di processo di verifica.
Questa diffidenza oggi in parte resiste, ma in parte, almeno in alcuni ambiti, è superata, grazie ad un lavoro che in molti stiamo facendo pazientemente in tal senso. Per la mia esperienza direi che si riesce a far percepire l’utilità del proprio ruolo, della propria attività, quando si comunica una funzione peculiare, con fondamenti teorici e metodi specifici che lo caratterizzino e che portino un’utilità pratica non altrimenti raggiungibile. Ecco, come pensi si caratterizzi, in questo campo, l’IA? Metodi, teorie, che non sono svolte da altre figure? Non potrebbe più ampiamente essere inserito nel termine cappello di “interaction design”?

Sicuramente non si può parlare di interaction design (spesso abbreviato come IxD, ndr.) come termine cappello. L’IxD è casomai una disciplina sorella, con compiti / metodi parzialmente comuni, nata come la intendiamo oggi nel 2003. Peter Boersma racconta bene la relazione nel suo modello a T (in prima versione leggermente diverso), non il primo (2004-2005) ma sicuramente il più noto. La disciplina contenitore potrebbe casomai essere lo user experience design (o UX, ndr.), come dice Peter (e tanti altri, incluso recentissimamente Jesse James Garrett), se mai questa definizione avesse un senso. Ma questo dell’UX è un discorso lungo e complicato e con poca attinenza a quanto stiamo discutendo.

Come vedi comunque, una certa confusione lessicale esiste, ed era a questa che faccio riferimento quando dico che la situazione non è chiarissima.

E in effetti questo potrebbe essere un problema da risolvere per far percepire l’importanza dell’IA. Intanto, nel tuo intervento a Better Software, parli di “ri-progettazione”. Si intende che un’informazione (o una sua organizzazione) è già stata progettata, e che bisogna tornarci su?

Il senso del titolo, che comunque come tutti i titoli cerca di essere in qualche modo ammiccante ed allusivo ed è per questo almeno parzialmente traditore, è che i tempi sono maturi per riconsiderare la progettazione dell’informazione e portarla oltre il discorso puramente o largamente biblioteconomico che ancora molti considerano prevalente e che stava alla base del famoso Polar Bear di Rosenfeld e Morville (Architettura dell’Informazione per il World Wide Web).

C‘è un ampio dibattito internazionale in corso su quali siano i confini e le rispettive competenze di buona parte delle discipline afferenti alla progettazione del digitale. Spesso non ci si accorda nemmeno sui nomi e sulle definizioni: information architecture, user experience, interaction design, user interface design, content strategy, digital design, La mia posizione personale, suffragata da un minimo di ricerca ed espressa anche in un articolo pubblicato a Febbraio dall’ASIS&T Bulletin e scritto con D. Madsen e K. Byström (IA Growing Roots), è che questo sia insieme un processo naturale nella maturazione del campo, ed anche un riflesso della accelerazione causata dalla conversazione globale in corso sul Web, un medium per sua natura ricombinatorio e non lineare. Andrew Hinton ha scritto cose interessantissime su questo problema.

Comunque sia, per rispondere direttamente alla tua domanda, sì, l’informazione è già stata considerata come progettabile. Come ho detto prima, parliamo di progettazione del contenitore, non del contenuto. Quello che sta cambiando o che è già cambiato, a seconda del dove ci vogliamo collocare nel discorso critico sul Web 2.0, è che questa informazione prima è andata largamente in mano agli utenti, ed ora sta uscendo dai computer ed entrando dovunque, non solo nei cellulari ma anche in tutta una serie di dispositivi che ci portiamo in giro, che troviamo in giro, e che ci fanno interagire costantemente e direttamente con pure informazioni. Se non vogliamo subire il cambiamento, dobbiamo progettarlo.

La seconda anima dell’IA, quella che in un certo senso fa capo a R. S. Wurman e al suo famoso libro “Information architects” e che alcuni vedono più legata all’information design ed al design tradizionale, è secondo me fondamentale in questo processo. D’altronde anche Rosenfeld e Morville nella terza edizione del Polar book sono arrivati a dire che IA è anche una comunità di pratica “focused on bringing principles of design and architecture to the digital landscape.” In questo senso parlo di riprogettazione e non di progettazione tout-court, ed è come ho già detto un discorso che investe sia chi chiede che chi offre, designer e committenti. E per essere chiari su quale sia la mia posizione su tutto questo chiacchierare in relazione al web sociale: un sito come Facebook poggia su un enorme lavoro di IA per la creazione del contenitore. I contenuti, poi, sono ovviamente opera degli utenti. Né più né meno di quello che accade con una casa, direi.

In quali attività consiste questa (ri)progettazione? Chi la svolge?

Una precisazione: intendo (ri)progettazione ad un livello decisamente astratto. Un nuovo modo di approcciare il progetto, non una nuova serie di best practices o di istruzioni punto per punto. Arriveranno anche queste, ma per ora personalmente non mi interessano. Quanto a chi la svolge, sicuramente gli architetti dell’informazione, ma come sappiamo benissimo quando si parla di comunicazione si parla di team di lavoro. Il cambio di prospettiva deve investire tutti gli attori del processo, e torniamo al perché mi sembrava interessante parlarne in una conferenza come Better software.

Come avrai capito, quando si parla di questi temi tendo ad essere piuttosto massimalista. E c‘è un motivo: sono circa 12-15 anni che esiste un’attiva comunità di IA. Molto è stato fatto dal punto di vista delle metodologie empiriche e degli strumenti di controllo della lavorazione. Molto poco o quasi nulla è stato fatto ad oggi per una sistematizzazione della parte teorica e critica della disciplina. Pochi libri, poca ricerca, poca visione d’insieme. Ho scritto di questo in diversi recenti post (ad esempio Big rock, small rock, and chorizo sausage) ed in alcuni articoli. Questo tra l’altro è l’assunto di base che ha guidato la creazione del working group sulla ricerca e l’alta educazione in IA e l’iniziativa del Journal of Information Architecture. I primi architetti dell’informazione con una preparazione universitaria specifica stanno entrando sul mercato statunitense e nordeuropeo oggi: se vogliamo che pratica professionale e disciplina scientifica procedano insieme per lunghi anni, questa revisione è un passo necessario. Quell’articolo dell’ASIS&T Bulletin che ho citato prima riassume molto di questo discorso.

Io lavoro spesso con realtà medie e piccole, tipiche dell’Italia. Quali sono le attività più importanti omesse da enti e aziende piccole e grandi nella gestione dell’informazione su un sito web?

Domanda complessa. Un dato di fatto è che la realtà italiana è sicuramente particolare. Per certi versi viviamo ancora di incertezze e ripensamenti per quanto attiene alla viabilità del web come strumento generalizzato di comunicazione a tutti i livelli, incluso quello istituzionale: noi italiani siamo ancora culturalmente anti-tecnologici ed inclini al pensiero magico ed apotropaico. Come risultato, abbiamo enormi ritardi e inusitate fughe in avanti, e mai una strategia solida. Aggiungo come osservazione personale che mi sembra che la tecnologia penetri solamente dove sostiene la comunicazione immediata, orale, come con la telefonia cellulare. E mi domando se il recente boom italiano dei social network non abbia qualche relazione con questo aspetto della mentalità nazionale.

Detto questo, onestamente non conosco sufficientemente a fondo la realtà imprenditoriale italiana per poter offrire una critica puntuale, ma non credo però di sbagliare molto se sostengo che ancora in larga parte non consideriamo l’informazione via web come una parte integrante ed abilitante delle strategie imprenditoriali. Il telefono? Certo. Il fax? Ovviamente. Il sito? Hm, vediamo. Il dominio lo abbiamo comprato, no? Quindi paghiamo qualcuno per salire nei motori di ricerca, e siamo a posto. Ovviamente è un esempio estremo e non mancano i picchi di eccellenza, ci mancherebbe, ma temo che la situazione generale non sia ancora molto distante da questo ragionare.

Per la mia esperienza, sì, è ancora abbastanza vero, anche se mi pare – lo dico timidamente – di scorgere qua e là, anche in realtà relativamente piccole, qualche segnale di cambiamento di questa mentalità, e un’attenzione crescente per il web all’interno di una strategia di comunicazione più ampia. Ma è chiaro che le realtà piccole non possono muoversi e ragionare come quelle grandi. Prova dunque qui ad abbozzare una qualche idea/strategia per gestire/progettare l’informazione che sia scalabile. Quali strategie possono adottare anche strutture piccole (comuni, associazioni, piccole aziende o addirittura aziende monopersonali), che possano facilitare una miglior progettazione e gestione in genere del loro contenuto informativo sul web?

Un’altra bella domanda, a cui credo però sia difficile dare una risposta concreta e soddisfacente nel corso di una chiacchierata. Direi che sarebbe già un passo fondamentale rendersi conto che il problema non è tecnologico. Non sono certo il primo a dirlo, non sarò l’ultimo, ma il problema non è questo o quel CMS, AJAX sì o no, o microformats. E nemmeno RDF o OWL. Il problema è progettuale. E un problema progettuale deve essere risolto da specifiche figure professionali, che di converso sono solitamente esterne all’azienda. Il ruolo dell’azienda, soprattutto se piccola, dovrebbe essere quello del committente informato e partecipante, e nessuno di questi due aggettivi oggi mi sembra accostabile alla situazione media italiana. Ma ribadisco, è un’opinione filtrata dal confronto con l’estero, e forse troppo pessimista.

Come si pone l’architettura dell’informazione (o la tua particolare accezione di IA) di fronte al fatto che, in quanto basato sulle azioni degli utenti, il web è un ambiente dove, più che in altri campi, il comportamento dell’utente dovrebbe essere preso come punto di paragone e confronto?

Personalmente ritengo tu dica una cosa corretta quando sostieni che i risultati debbano essere in qualche modo valutati e validati, ma non sono sicuro che vediamo allo stesso modo il processo. L’usabilità è una disciplina di valutazione post facto, in larga parte legata a standard misurabili ed a metriche consolidate. L’architettura dell’informazione, così come l’interaction design, è (o dovrebbe essere) una disciplina di progetto.

In ogni disciplina progettuale, il progettista ha il compito ultimo di sintetizzare una visione: in ruoli e momenti diversi, nel campo del digitale questi compiti ad oggi sono assolti dagli architetti dell’informazione e degli interaction designer. Se questa visione sia vincente o semplicemente adeguata, oltre il limite del rispetto di tutta una serie di euristiche e regolamenti (dove questi esistano), credo sia largamente demandato ad altre figure professionali, come ad esempio gli esperti di usabilità.

Se parliamo di metodologie, ad oggi lo UCD è largamente utilizzato in fase progettuale. La sua diffusione è sicuramente un fatto positivo, e non esiste progetto di una certa dimensione che non utilizzi personaggi, o valuti alcune scelte organizzative con freelisting o card sorting.

In Europa, immagino. In Italia un po’ meno. Un po’ più di ieri, ma ancora non in maniera prevalente, purtroppo.

A me personalmente ogni volta che si dice UCD viene in mente il manzoniano ‘adelante con juicio’, anche perché ritengo, in compagnia di Jared Spool, che ci sia molto poco di nuovo sotto il sole. Certamente gli utenti sono una componente del progetto, ma non l’unica, e a volte nemmeno la predominante. L’ergonomia non l’abbiamo inventata ieri, e non è che progettando una forchetta posso ignorare che gli esseri umani hanno certe dimensioni o certi gradi di libertà posturale più di quando progetto menu di navigazione o drop-down box. Se la mia forchetta non entra in bocca, è tagliente, o pesa dieci chili, forse è un’opera d’arte, ma sicuramente non un è oggetto di design. Lo stesso avviene con un menu di cento voci. Sarà la mia formazione, ma io mi occupavo di personas e di rapporti visione-testo già negli anni 80 e non in relazione al web o al software, e senza voler sminuire l’impatto della sola idea di dover ‘pensare agli utenti’ faccio fatica a gridare alla rivoluzione.

Nessuno di noi (specialisti di usabilità) pretende di rappresentare una novità o una rivoluzione. I metodi che usiamo hanno una storia e non sono nuovi, le teorie e le ricerche sono ben fondate, eccetera. Il problema è che nel tradizionale processo progettuale italiano nel web (talvolta anche nel software, specie in realtà piccole) semplicemente questi metodi “non nuovi” non vengono usati. Che siano vecchi o nuovi, dal mio punto di vista è irrilevante, basta che siano efficaci e utili. E, se sono utili, dovremmo utilizzarli…

Io credo che, ed è uno dei temi caldi seguiti all’ultimo IA Summit di Memphis, oggi manchiamo di un linguaggio di critica specifico come invece abbiamo per il disegno industriale o per il cinema, e ci risulta difficile analizzare con una certa chiarezza di significati quanto viene prodotto ed utilizzato. Processo tra l’altro che è uno dei primi gradini di quella valutazione il più possibile oggettiva delle esperienze a cui fai riferimento tu.

In definitiva, credo che tutto torni al processo di maturazione del campo della progettazione del digitale di cui parlavamo prima, e che è alla base della mia partecipazione a Better Software. I ruoli devono diventare più chiari a tutti, progettisti, clienti, ed utenti, e se ci parliamo e ci conosciamo è decisamente meglio.

L’intento di questa intervista è proprio quello di contribuire in tal senso. L’idea che tu proponi di una usabilità “post facto” è ancora molto diffusa, ma io e altri ci stiamo muovendo da tempo per sottolineare come, in realtà, l’usabilità è più utile durante il progetto, quando c‘è tempo di implementarne i risultati, non dopo. A progetto finito o quasi finito, ritengo non abbia nemmeno senso fare usabilità (a meno di non voler mantenere dei benchmark per uso interno). È evidente dunque l’urgenza di far comunicare di più e meglio le diverse discipline coinvolte nella progettazione anche per risolvere queste differenze di visione, e ti ringrazio per la disponibilità. Speriamo che altre occasioni vengano in futuro.

Me lo auguro, e grazie per avermi dato l’opportunità di una bella chiacchierata. Alla prossima.

Il seminario di Andrea Resmini è in programma mercoledì 6 maggio alle ore 14.

Se siete interessati ai temi di Better Software potete leggere anche l’intervista a Gianandrea Giacoma e Davide Casali sulle interfacce sociali e i social network.

1 A bridge experience is one in which the user experience spans multiple communications channels, document genres, or media formats for a specific, tactical purpose”. Grossman Joel, Designing for bridge experiences^