Uno dei problemi con la definizione di usabilità della ISO 9241 è sempre stato che teneva in poco conto gli aspetti emozionali dell’esperienza utente. Delle tre dimensioni in cui articola l’usabilità, due, efficacia ed efficienza, sono relative al raggiungimento di compiti concreti e a risorse spese.
Solo la soddisfazione tiene conto dell’esperienza soggettiva. Peraltro senza una articolazione del concetto di soddisfazione che lo dettagli meglio o lo definisca, si tende a sovrapporlo a quello di customer-satisfaction, mentre dovremmo occuparci della soddisfazione nell’uso del prodotto, un concetto diverso.
L’emergenza degli aspetti emozionali dell’interazione
Gli anni recenti del web e della diffusione dei dispositivi mobili, probabilmente perché hanno allontanato l’informatica dall’ambito solo professionale (in cui efficacia ed efficienza hanno un riflesso diretto sulla produttività) hanno mostrato che le persone usano gli artefatti digitali per obiettivi e scopi molto diversi da quelli legati alla produttività. In alcuni casi antitetici.
Le molle che spingono le persone ad informarsi sui siti web, a esprimersi sui social network o a giocare sono molle che difficilmente riescono a essere ricomprese nel tradizionale concetto di usabilità. Purtuttavia rimane vero che se il prodotto non è adeguato alle esigenze dell’utente, non avrà successo. Semplicemente, non possiamo più valutare le esigenze dell’utente su basi prevalentemente legate alla produttività, quando la stragrande maggioranza dell’esperienza e delle motivazioni all’uso di app e siti web è ormai associata al tempo libero.
Intendiamoci, alcuni obiettivi sono ancora connessi ad efficacia ed efficienza. Specialmente nelle transazioni economiche dei siti di ecommerce, nella capacità di trovare le informazioni sui siti pubblici, e in ambiti legati a obiettivi professionali. Ma ad essi si affiancano – spesso anche sulle stesse tipologie di siti e app – aspetti legati alla piacevolezza e alla possibilità di esprimere se stessi.
Il contributo di Norman
Già Donald Norman aveva spostato l’attenzione del mondo HCI dagli aspetti pratici a quelli emotivi nel suo Emotional Design, distinguendo tre livelli di elaborazione da parte delle persone che usano un oggetto: viscerale, comportamentale e riflessivo. Tutti e tre in realtà hanno a che fare con aspetti non tradizionalmente coperti dall’usabilità classica.
- Il livello viscerale è la reazione automatica all’apparenza di un oggetto. Ci piace o ci repelle, prima che possiamo deciderlo. Ci stupisce o ci annoia. E’ un livello di reazione largamente automatico, emozionale, viscerale, appunto. Un designer deve saper tenere conto dell’effetto che un suo prodotto genera a questo livello.
- Il livello comportamentale ha una componente di efficacia, più tradizionale, ma anche di piacere nell’uso efficace dell’oggetto.
- Ma anche il livello riflessivo ha implicazioni non riconducibili all’efficacia, e dà luogo a ricordi, mette in gioco l’immagine di sé e un diverso concetto di soddisfazione, come appagamento e realizzazione personale.
La User Experience come risposta “fuzzy”
D’altra parte proprio Norman è il coniatore dell’espressione User Experience, con l’intento di allargare l’attenzione sugli aspetti comportamentali dell’interazione anche a quelli affettivi, ma senza escludere i primi.
Nella sua recente revisione della 9241:210 (che sostituisce anche la precedente 13407), l’ISO ha invece provato a introdurre una definizione di User Experience come:
a person’s perceptions and responses that result from the use or anticipated use of a product, system or service
Ovvero:
Le risposte e le percezioni di una persona che risultano dall’uso o dall’anticipazione d’uso di un prodotto, un sistema o un servizio.
Benché la definizione sia comprensibile, si concentra solo su percezioni e risposte e allontana troppo dal suo ambito gli aspetti comportamentali, che pure rimangono, e che Norman non intendeva escludere.
Così l’UX, forse anche per tali discrepanze o vaghezze definitorie, non si è evoluta in un corpus di ricerche che aiutassero una formalizzazione del fenomeno. Il termine oggi ed è stato preso a prestito dalla comunità di pratiche dei progettisti per ricomprendere un processo di design mutuato dal vecchio UCD (o HCD).
UX come intesa nella propria comunità di pratiche
Di fatto nella comunità di pratiche l’UX Design è una evoluzione del concetto di Interaction Design, ed è più focalizzata sul processo di costruzione di oggetti, che su quello di definizione teorica e di misurazione/valutazione. Il miglior testo probabilmente esistente sull’Interaction Design, About Face (giunto alla quarta edizione), su questo punto è esplicito.
Potremmo dire che l’UX Design nasce quando metodi e obiettivi dell’Interaction Design incontrano la necessità di tenere in maggior conto il punto di vista dell’utente nato con l’enorme diffusione dell’usabilità in seguito all’avvento del web.1
Da cui lo slittamento semantico verso l’UX-Design, che potremmo definire come un processo creativo di scoperta e di esplorazione di soluzioni progettuali basate sull’ascolto e l’elicitazione delle esigenze di stakeholder interni e utenti.
L’UX Design fa uso di interviste, questionari, una varietà di tecniche e di strumenti intermedi di ausilio alla progettazione come le personas, gli scenari, i wireframe, i prototipi, per adottare procedure iterative di prova e correzione (basandosi per lo più su test informali o reazioni raccolte online a ipotesi progettuali) che si suppongono portare gradualmente ma in modo strutturato alla definizione di un progetto più adeguato alle esigenze sia di business che degli utenti.
(Se siete interessati a cosa pensa la comunità di pratiche di se stessa qui ci sono i risultati di un questionario del 2011 sull’autopercezione della UX da parte di alcuni professionisti italiani).
Il problema della mancanza di un framework teorico e di metodi di valutazione
Il fatto che il processo di UX-D si concentri sul ricercare, immaginare e costruire soluzioni è cosa utile, ma la mancanza di definizioni teoretiche che consentano di operazionalizzare e quindi di immaginare strumenti per misurare i risultati è un evidente limite per gli stessi operatori del settore.2
Mancando di propri strumenti di quantificazione, infatti, la valutazione del loro lavoro ripiega inevitabilmente verso tradizionali metriche di usabilità, o addirittura di analytics e di marketing. Il che mette sostanzialmente l’UX stessa in una posizione subalterna rispetto a funzioni tradizionali come il marketing, il project management, il controllo di qualità o ogni altra funzione aziendale che contribuisca a gestire la strategia produttiva rappresentata dal sito o dal software.
Il contributo di Hassenzahl
Che la semplice soddisfazione non bastasse e comunque fosse poco definita se n’erano accorti in molti. Hassenzahl, un autore tedesco, è stato fra i primi3 a porsi il problema di definire meglio quali sono gli aspetti dell’esperienza non strettamente legati agli ambiti produttivi, e a ipotizzare dei modi per quantificarli.
In particolare distingue fra obiettivi pragmatici e obiettivi edonici nell’uso di un prodotto. I primi riguardano il desiderio di “fare”, i secondi soddisfano il bisogno di “essere”. Se i primi si possono valutare con tradizionali metriche di efficacia ed efficienza, accompagnate da valutazioni di soddisfazione e facilità percepita, i secondi hanno bisogno di una definizione teorica completamente nuova. L’autore identifica tre tipi di obiettivi edonici:
- Stimolazione
- ha a che fare con il desiderio di crescita personale, di migliorare le proprie conoscenze e capacità
- Identificazione
- ha a che fare con il desiderio di autoespressione e di interazione/relazione con altri significativi
- Evocazione
- Ha a che fare con il mantenimento del sé e con la costruzione di ricordi e di senso.
Che i siti e le applicazioni abbiano a che fare con questi tre aspetti è evidente a tutti e basterebbe citare come dimostrazione la diffusione e l’enorme successo dei social network (che soddisfano in particolare gli scopi edonici legati all’Identificazione), i siti di news e i blog, i giochi online e le comunità, che hanno a che fare un po’ con tutti questi obiettivi edonici.
Hassenzahl ha anche ideato e validato uno strumento che costruisce delle scale che misurano gli aspetti pragmatici dell’esperienza, quelli edonici e l’attrattiva generale di un sito o di un’applicazione (Attrakdiff, non tradotto in italiano). Si tratta di uno strumento psicometrico basato sul differenziale semantico. Il differenziale semantico è già usato da alcuni specialisti di usabilità (tra i quali chi scrive) proprio per sopperire alla povertà di dati soggettivi che altrimenti si ricaverebbero nei test. Certo, riferirsi ad aspetti più studiati e a strumenti validati aiuterebbe una raccolta condivisa di questi dati e una migliore comprensione dei fenomeni sottesi.
Arriva l’ISO 25010
L’ISO non è rimasta a guardare. Nella recente ISO 25010 (che sostituisce la vecchia 9126), parlando della qualità in uso, definisce la soddisfazione (satisfaction) come composta dalle seguenti sottocaratteristiche4:
- Usefulness
- (utilità, intesa come soddisfazione cognitiva)
- legata soprattutto alla facilità d’uso nel raggiungimento dei fini pragmatici.
- Pleasure
- (soddisfazione emozionale)
- il grado in cui un utente è soddisfatto dal raggiungimento percepito dei fini edonici di stimolazione, indentificazione ed evocazione (sì, quelli di Hassenzahl…) con le relative risposte emotive
- Comfort
- (soddisfazione fisica)
- il grado in cui un utente è soddisfatto dal benessere fisico derivato dall’interazione
- Trust
- (soddisfazione relativa alla sicurezza)
- il grado in cui un utente è soddisfatto e ritiene che il prodotto si comporti come previsto e generi conseguenze percepite come accettabili e affidabili.
Come vedete, sembra che il lavoro di Hassenzahl e di altri abbia almeno portato ad un approfondimento dei modi in cui intendere la soddisfazione nell’uso di un prodotto.
Dare nuova autonomia all’ambito della User Experience
Il rinnovato interesse che norme ISO e ricerca scientifica danno alle risposte emotive nell’uso dei siti e dei prodotti informatici offre nuovi strumenti a tutta la comunità per valutare la UX del prodotto in uso. La UX è una delle componenti più rilevanti del successo di un prodotto. Bradner e Sauro NPS sostengono che la UX contribuisce fra il 36% e il 40% all’aumento di raccomandazioni di un prodotto (un software Autodesk, nel loro caso).
Definire meglio la soddisfazione consente a chi gestisce un prodotto informatico (sia un sito, un software, un’app o qualunque strumento anche multicanale) di quantificare l’impatto di quell’aspetto — anche grazie a questionari come l’Attrakdiff o scale simili — e a valutarne l’impatto su altre metriche di successo del prodotto con metodi simili a quelli usati da Bradner e Sauro.
Non sembri la mia un’ossessione per la misurazione fine a se stessa: certamente il prodotto è più delle singole misurazioni, per sofisticate che esse siano. Il punto, come detto sopra, è quello di dotare l’intera comunità di usabilità e UX di nuovi strumenti anche per attestare e dimostrare i propri risultati senza dover far necessariamente ricorso agli strumenti usati da altre funzioni professionali.
Sapere quanto “pesi” un buon risultato in aspetti come likeability o pleasure sul successo finale di un prodotto, assegna anche ai progettisti uno status e un rispetto diverso da quello di semplici “fornitori di grafica”, come ancora sono a volte percepiti.
Avere strumenti per misurare non solo gli aspetti oggettivi ma anche soggettivi dell’esperienza è insomma di vitale importanza sia per la maturità e l’autonomia dei professionisti di UX, usabilità e design, sia per il business. Di questi argomenti parlerò ancora nei prossimi articoli. Per un approfondimento su questi strumenti e su come possono essere usati rimando — per chi fosse interessato — al workshop del prossimo 9 giugno.
1 Ignorando peraltro approcci di processo più formalizzati come l’ingegneria dell’usabilità di Jakob Nielsen: forse perchè troppo modellata sul versante software e comunque poco focalizzata sugli aspetti emotivi.
2 Esistono modelli come il Pleasure Model di Patrick Jordan (esposto anche nel suo libro Designing Pleasurable Products, che tuttavia sono da considerarsi un ibrido fra un tentativo di definizione teorica e un nuovo strumento di ausilio alla progettazione, piuttosto che alla valutazione.
3 Tra gli altri va citato almeno McCarthy, J. & Wright, P.C., (2004). Technology as experience. Cambridge, MA: MIT Press, e il successivo Experience-Centered Design: Designers, Users, and Communities in Dialogue, Morgan and Claypool Publishers 2010 degli stessi autori.
4 La ISO 25010 è una norma articolata, che distingue due modelli di qualità: qualità del prodotto e qualità in uso. Relativamente alla qualità in uso si elenca qui solo il concetto di satisfaction, ma è bene precisare che il modello è composto da 5 caratteristiche, delle quali la satisfaction è soltanto una, citata perché la più pertinente al nostro discorso.