Anche l’occhio vuole la sua parte

Tempo fa ho rifatto la cucina. Agli architetti cui mi ero rivolto per avere un primo progetto avevo dichiarato alcuni vincoli. Avrei voluto un progetto che tenesse conto della disposizione delle luci naturali, e, come minimo, dei termosifoni. Ad esempio, avrei evitato un tavolo che fosse troppo a ridosso della finestra e del termosifone. E avrei avuto bisogno di uno spazio di contenimento maggiore. Il tutto condito da un bell’aspetto.

Mi hanno presentato tre alternative. Nessuna di queste teneva conto dei miei vincoli. In una delle alternative addirittura tutti i miei vincoli erano ignorati: il tavolo era proprio sotto la finestra e davanti al termosifone, in un angolo. Lo spazio di contenimento era uguale a quello esistente, e venivano anche onerosamente spostati dei tubi in posizioni che avevo avvisato di evitare.

Alle mie garbate rimostranze, gli architetti cui mi ero rivolto sembravano non capire. “Ma”, mi risposero “l’occhio vuole la sua parte”. Questa fu la sola giustificazione. A loro era sembrato bello così.

Non furono capaci di proporre un altro progetto con i requisiti da me indicati. Andai in un negozio dai prezzi inferiori e dalle soluzioni meno creative. E con un notevole risparmio economico rifeci la cucina rispettando i miei vincoli, con mia attuale soddisfazione. L’occhio ha comunque avuto la sua parte.

Dalla cucina al web

Questa esperienza mi torna alla mente ogni volta che vedo progetti grafici che non tengono conto dei vincoli del web. Pagine bloccate nel senso dell’altezza. Sfumature impossibili da realizzare con pagine le cui dimensioni cambiano. E capita ancora di vedere progetti con caratteri tipografici impossibili da utilizzare (se non in forma di immagine, appesantendo la gestione). Spesso anche solo variati espanse o condensate di fonti standard come Arial o Helvetica.

Per non parlare di barre di scorrimento ridisegnate in modo non standard, bottoni che non sembrano bottoni, o bottoni che lo sembrano ma non sono cliccabili, link dello stesso colore del testo, gabbie di impaginazione impossibii da realizzare se non si conosce esattamente la dimensione del testo, eccetera. Le solite cose.

E mi chiedo come sia ancora possibile dover discutere di queste cose nel 2010. Evidentemente, alcuni di noi, nell’usabilità, hanno iniziato a dare per scontate alcune cose. Per non diventar noiosi, ci siamo messi a parlare d’altro, magari di User Experience. Così abbiamo forse involontariamente convinto qualcuno che l’importante è che l’occhio abbia la sua parte (che è importante, ovviamente: purché i vincoli di base siano rispettati).

Feature creep e seduttività

Di recente, sul Journal of Usability Studies, Daryle Gardner-Bonneau ritiene che l’usabilità stia facendo passi indietro. Cita il caso di come lei, ultracinquantenne, sia alle prese sempre più spesso con prodotti (telefonini, lettori dvd) che soffrono del cosiddetto “requirement creep” (o “feature creep”). Norman la definisce la tendenza a riempire i prodotti di qualunque funzionalità possano supportare, senza necessità reale.

Bisogna però chiedersi, davanti ad un fenomeno reale, perché accade. Per essere in grado di controbilanciarlo. E accade perché alcune cose, semplicemente, sono più seduttive. Non necessariamente utili. Alla prova dei fatti, potremmo essere scontenti del prodotto: solo che lo capiamo dopo. E’ come comprare un libro solo per la copertina, un disco solo per una hit, una cucina per il colore o una superficie, un uomo politico per il colore della pelle o per il sorriso. Ci piace pensare di scegliere in maniera razionale, ma la ricerca ci ha già detto che non è così. Scegliamo in maniera viscerale. Chi progetta prodotti lo sa, e punta sulla visceralità. Anche riempire di feature inutili fa appello al nostro desiderio di accumulare (cibo, risorse) per sentirsi sicuri.

L’usabilità ha ragione, alla fine. Ma fatica a farsi sentire, all’inizio. Bisogna fare appello alla razionalità, all’uso ragionato di un prodotto, per dimostrare che alcune pratiche sono sbagliate. E, comunque, chi deve vendere prodotti sa che continuerà a farlo sulla base di aspetti viscerali. Questo non cambierà.

Alla fine, i telefonini più venduti per gli adulti sono quelli più semplici. Questo è vero però solo per adulti che non hanno bisogno di affermare uno status. Pensionati, casalinghe. Sono più semplici da usare, hanno meno feature, costano poco e vendono molto. Ma se un adulto ha paura che comprare un telefonino semplice possa abbassarne lo status, si farà convincere a comprare un modello più costoso, inusabile, ma scintillante e pieno di funzionalità che non userà. E, siccome costa di più, all’azienda conviene preparare oggetti del genere, perché i margini sono maggiori.

Progettare per come è fatto l’uomo (irrazionalità compresa)

Ciò che i professionisti dell’usabilità non hanno capito fino in fondo, finora, è che devono accettare come un dato di fatto che le decisioni umane non sono razionali ma rispondono a bisogni più profondi. E, spesso, a euristiche che ci sono utili in alcune situazioni, ma si rivelano ingannevoli in altre. Non a caso ne parlo nel corso di Persuasive Design. E’ necessario capire quali aspetti emotivi o ragionamenti inconsapevoli entrino in gioco nel guidare le nostre scelte e le nostre decisioni. Ciò non ci libera dalla necessità di fare evangelizzazione sulle buone pratiche progettuali e istruire i designer su come evitare gli errori, e ridurre il feature creep (che funziona solo in alcuni casi, mentre in altri penalizza letteralmente i prodotti). La quadratura del cerchio sta nel fare prodotti attraenti e usabili al tempo stesso. Che diano status, che seducano, ma che rispettino i principi di interazione.

Ci sono molti prodotti che dimostrano che questo è possibile. Devo ricordarmi di segnalarlo ai miei architetti, la prossima volta che li vedo.

3 thoughts on “Anche l’occhio vuole la sua parte

  1. Architetti? Brutta razza! ___

    Anche io ho un esempio simile.
    Quando ho chiesto ai geometri (che in genere sono più pragmatici di altre figure) la stesura del progetto per la casa nuova il mio unico vincolo era: estetica secondaria alla funzionalità, modus operandi tipico dello standardista web. Prima la struttura, la disposizione dei locali in base all’esposizione solare, ai percorsi da fare per svolgere qualsiasi attività, dal cucinare al lavare e stendere i panni… e poi, solo alla fine, dopo mille modifiche e ripensamenti, l’estetica, l’esterno, la scelta tra stile moderno o classico, la scelta dei materiali per i rivestimenti, i serramenti ecc… Però, dopo tutta questa razionalità, devo dire che il letto matrimoniale al centro della stanza non sarà usabile, renderà difficile l’arredamento, però è una figata pazzesca e lo voglio assolutamente.
    Che c’azzecca col resto? Assolutamente niente – appunto.
    La stessa situazione l’ho sperimentata sia da cliente che da progettista. Anche nei siti web, prima vengono i contenuti, la struttura, i percorsi per raggiungere le informazioni, la disposizione nelle pagine e poi alla fine lo styling. Poi arriva il cliente che s’impunta su qualcosa e tutti i buoni propositi vanno a farsi benedire… Gli si può spiegare perchè certe scelte vanno evitate, ma è lui che paga e quindi arrivati all’ultimatum occorre rassegnarsi.
    Non bisogna scomodare Freud per capire che alla base dei nostri comportamenti c‘è spesso dell’irrazionalità: basta l’esperienza.

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