Le immagini e il testo nelle pagine di descrizione del prodotto

Le pagine di descrizione dei prodotti nei siti di e-commerce hanno particolare importanza. Se un utente non è in grado di capire e apprezzare il prodotto da quella pagina, non procederà all’acquisto.

Le indicazioni di usabilità classiche per le pagine di prodotto sono, tutto sommato, generiche e di buon senso:

  • Facilitare la navigazione (quando mai non dovremmo facilitarla?…)
  • Facilitare la scansione visiva che segue un pattern a F (vecchia storia, nemmeno sempre vera)
  • Usare buone immagini (chi vorrebbe usare immagini pessime?)
  • Non usare le descrizioni originarie del produttore per descrivere il prodotto, ma personalizzarle evidenziando quello che può essere utile per il vostro utente
  • Eliminare il rumore visivo
  • Rendere sempre chiaro e facilmente disponibile la call to action, cioè in questo caso il bottone di aggiunta al carrello.

Anche le nostre vecchie indicazioni del 2004 reggono ancora. Tutte queste cose sono vere ma troppo generiche. Nei test di usabilità di incontrano spesso comportamenti degli utenti che spiazzano:

  • scarso uso degli strumenti di navigazione che con tanta cura avevamo progettato;
  • scarso utilizzo di informazioni testuali che invece avevamo con attenzione redatto;
  • cecità selettiva a funzioni che a noi sembravano così ovvie.

Un recente studio di usabilità di Baymard che si occupa proprio delle pagine di prodotto, identifica con chiarezza un problema che spesso vedo anch’io nei test di usabilità, non solo di pagine commerciali: la scarsa attenzione che gli utenti dedicano ai testi nelle pagine, peggiorata dalla presenza di foto che calamitano l’attenzione. Questo è particolarmente grave sulle pagine di prodotto, naturalmente.

Un’immagine vale più di 1000 elenchi puntati

Secondo lo studio, le immagini sono molto utili a dare agli utenti un’idea delle proporzioni, dei dettagli del prodotto. Riescono anche, se costruite bene, a far sembrare il prodotto attraente. Sono uno strumento talmente buono che ben il 56% degli utenti nello studio guardava come prima cosa proprio quelle.

Tuttavia le immagini nella maggior parte dei casi non rispondono a domande specifiche sul prodotto: ad esempio non dicono il peso, le dimensioni esatte, il profumo, il tessuto, in generale i materiali, la compatibilità con qualcos’altro, l’esistenza o la predisposizione per accessori.

Questi sono tutti aspetti importanti per i prodotti, e sono di solito contenuti nel testo descrittivo a fianco della foto. Oppure sotto, specialmente su mobile. Sfortunatamente, però, un pattern di comportamento molto comune è quello per cui dopo aver visto le foto, l’utente scorre rapidamente il testo descrittivo senza leggerlo, e a volte senza nemmeno espandere gli eventuali dettagli a comparsa del testo.

In tal modo, le informazioni che pure ci sono non vengono lette.

Questo è un problema spesso evidente nei test di usabilità, ma anche in situazioni di osservazione ecologica della navigazione, in contesti di vita quotidiana. Gli utenti, pur alla ricerca frenetica di informazioni o conferme alle loro domande, scorrono solo molto fugacemente i testi che le contengono, correndo così il rischio di mancarle. Lo si capisce bene quando, in alcune situazioni, a posteriori dicono che non hanno potuto trovare una certa informazione che invece era presente, in mezzo al testo.

Una soluzione parziale: immagini con l’aggiunta di testo

La soluzione proposta da Baymard al problema è quella di arricchire le immagini con informazioni testuali, che, poiché inserite nel contesto, aiutano a rispondere a dubbi e domande degli utenti. Ecco un semplice esempio:

In questa scheda le immagini fanno comprendere il tipo di lampada e l’utilizzo tipico, ma per conoscere le dimensioni e capire se queste sono adatte alla nostra stanza dovremmo consultatre la descrizione a fianco. Nel caso specifico, inoltre, l’informazione è accessibile solo cliccando su “Visualizza altri dettagli prodotto”
In questa immagine, invece, le informazioni sulle dimensioni esatte sono fornite attraverso testo presente direttamente nell’immagine, aiutando quindi a capire se il prodotto faccia al caso nostro.

L’esempio dovrebbe rendere bene l’idea, e altri esempi riguardanti frigoriferi, jeans e zaini li trovate nell’articolo originale di Baymard.

Sono tutte informazioni che sono presenti anche nelle descrizioni, ma che gli utenti trovano già guardando le immagini, riducendo il rischio di abbandono per non averle viste nel testo.

Scegliere le informazioni decisive per l’acquisto per prodotti sufficientemente generici

Uno dei problemi riguarda evidentemente la decisione su quali informazioni è importante inserire: per alcuni prodotti può essere ovvio (taglia, peso, dimensioni di accessori interni come le tasche), per altri meno: una macchina fotografica professionale ha talmente tante specifiche che è impossibile inserirle tutte in una foto. D’altra parte, questo è un genere di prodotto per esperti, i quali è più probabile cerchino nelle descrizioni le specifiche, visto che sanno esserci e sanno essere importanti.

Le indicazioni valgono dunque soprattutto per acquisti di prodotti rivolti a un pubblico non specialistico, che si acquistano ogni tanto, ma le cui caratteristiche variano grandemente: elettrodomestici, mobili, vestiti, accessori.

Il problema del mobile e altre considerazioni

L’aggiunta di testo nelle immagini porta in primo piano un’altra difficoltà: quella di costruire immagini con testi che siano ugualmente leggibili sia su desktop che su mobile. Sia la disposizione sia la leggibilità del testo deve essere adeguata in entrambe le situazioni. Solo se per ragioni di densità o di orientamento non fosse possibile rendere le immagini con testo leggibili anche su smartphone, sarà necessario mostrare immagini differenti, progettate appositamente per il dispositivo.

Si noti che questo è in qualche modo anche una specie di caso di accessibilità inversa: gli utenti che utilizzano i lettori vocali, per esempio, è più probabile leggano proprio il testo, anziché le descrizioni (se presenti) delle foto. Quel tipo di utente ha in questo caso addirittura un vantaggio rispetto a chi usa la modalità visiva, perché ha minori probabilità di essere distratto dalle immagini. Oltre ad avere in media una maggior abitudine all’elaborazione rapida di molte informazioni verbali.

Un problema che va oltre le sole immagini, da verificare in ogni tipo di sito

Un’ultima considerazione: ci sono ovviamente molti altri aspetti importanti delle pagine di prodotto:

  • l’accesso e l’ordinamento dei giudizi degli altri acquirenti,
  • la stratificazione delle informazioni in schede o tab a comparsa,
  • la presentazione di bundle o prodotti correlati

Ma il fatto che le informazioni testuali vengano spesso mancate, pur se presenti, costituisce a mio parere un problema di usabilità e comprensibilità enorme, che va preso in esame prima degli altri, perché vanifica anche una progettazione altrimenti a regola d’arte.

Si potrebbe pensare che questo fenomeno di “sorvolamento delle informazioni presenti” sia colpa delle sole immagini, che calamitano l’attenzione distogliendola dal testo, e forse una certa quota del comportamento è ascrivibile anche a questo. Ma, come ho detto, il comportamento si osserva in qualunque tipo di pagine nei test. Sia in quelle inframmezzate da foto, che nei cosiddetti “muri di testo”, ed è forse più legata al tipo di task che viene richiesto.

La questione merita verifiche anche sperimentali più approfondite, ma una ipotesi potrebbe infatti essere che sia l’orientamento al compito (ricerca, acquisto, transazione immediata) a indurre un comportamento di scorrimento rapido e poco preciso dei testi. Lo scopo finale infatti non sarebbe quello di comprendere il testo, ma solo decidere sull’acquisto o sulla transazione. Oppure quello di trovare un’informazione puntuale.

Le attività di comprensione prevedono immersione nel testo, perché lo scopo è proprio capire cosa il testo dica, frase dopo frase, formando una rappresentazione coerente del significato complessivo. Ma in molte attività sul web semplicemente non ci interessa questo. Non se ne deve concludere che la gente non legga sul web in assoluto, ma che non c’è alcuna garanzia che legga quando sta tentando di adempiere a un’attività pratica, tipo acquistare.

Lo studio dei contesti di utilizzo del web (e del computer/smartphone in generale) è in realtà poco sviluppata, e meriterebbe probabilmente migliori approfondimenti. Una vecchia ma ancora valida introduzione al tema, per chi fosse interessato, è reperibile in questo articolo del 2001 di Maguire.

L’usabilità dei form

I form1 sono elementi interattivi della pagina web molto importanti per tutti i siti che, oltre a presentare informazioni, hanno bisogno che l’utente fornisca informazioni e interagisca con il sito. Sia rispondendo a questionari, inviando una richiesta, acquistando qualcosa o registrandosi ad un servizio. Sono il fondamento di qualsiasi applicazione web, dove attraverso i form gli utenti modificano impostazioni, gestiscono dati in inserimento, in visualizzazione e in modifica.

Esistono form semplici e complessi, basati solo sull’HTML oppure modificati con javascript, per utenti smaliziati o novizi. Stabilire linee guida rigide per i form valide e sufficienti per tutti i casi per la mia esperienza è quasi impossibile. Può essere di aiuto distinguere diversi aspetti sui quali i form possono essere valutati, secondo linee guida o principi che vanno prima di tutto interpretati e capiti, piuttosto che applicati rigidamente: nel compiere qualunque analisi bisogna infatti capire se una certa regola può portare benefici alla specifica applicazione oppure no.

Propongo qui, partendo dalla mia personale esperienza di analisi, oltre che dalla letteratura di settore, una serie di aree di valutazione distinte, che possono non essere sempre applicabili a tutti i form, ma che possono aiutare a costruire un proprio insieme modulare di linee guida, adattato al proprio sito e alla propria situazione. In seguito integrerò queste analisi con link e spunti di approfondimento ad altri siti. Le aree di analisi che per convenienza distinguo sono nove:

  1. Comprensibilità linguistica
  2. Operabilità
  3. Messaggi e recupero dell’errore
  4. Comprensibilità della procedura
  5. Percepibilità
  6. Organizzazione spaziale
  7. Semantica convenzioni/affordance
  8. Punti di azione

Comprensibilità linguistica

Usare per ogni form testi introduttivi che spieghino esattamente cosa è necessario fare.

I testi introduttivi sono quelli che vengono presentati in cima al form, subito dopo il titolo, per spiegarne eventualmente il senso e il funzionamento. In tutti i form abbastanza complessi dovrebbero essere presenti, ma essere estremamente sintetici e focalizzati a chiarire. Non dovrebbero essere testi che “vendono”, ma che spiegano all’utente cosa e perché.

Usare per ogni campo etichette verbali chiare per l’utente.

Ogni campo dovrebbe avere un’etichetta verbale che spieghi il dato che l’utente deve inserire o selezionare, in maniera chiara e non ambigua.

Presentare informazioni di supporto sensibili al contesto per i diversi campi, o per i più ambigui.

Spesso un’etichetta iniziale non è sufficiente a spiegare quale dato viene richiesto o perché viene richiesto. A volte il dato è chiaro ad utenti esperti ma non ad utenti inesperti. È utile prevedere fin dall’impaginazione la possibilità di inserire testi ulteriori per spiegare meglio il dato richiesto. Due soluzioni, a seconda dei casi, sono particolarmente efficaci:

  1. Inserire il testo in punto fisso dell’impaginato
  2. Inserire il testo in elementi a comparsa attivabili dall’utente.

Il modulo di iscrizione a Blogger è un esempio di come una colonna intera del modulo viene riservata ad un testo esplicativo.

Esempio di testo esplicativo contestuale per form
Esempio di testo esplicativo per ogni campo da Blogger.com

In altri casi il testo esplicativo può invece venir presentato a comparsa, cliccando o passando sopra un simbolo con il punto interrogativo o il simbolo della “i” di informazioni. Naturalmente è importante che questi testi siano perfettamente comprensibili per l’utente.

Operabilità

Assicurarsi che sui campi e sui bottoni si possa sempre operare con facilità.

Non parliamo tanto degli errori in inserimento del form, ma di selezione del campo. Tendine che non consentono di scorrere le voci, che si chiudono prima che l’utente riesca a spostarsi, campi che cancellano (o che non cancellano quando lo si vuole fare…) quello che si è scritto, selezioni non deselezionabili… tutte cose che vanno testate con cura e accuratamente evitate. E’ un tipo di errore che può capitare solo in certi punti del form o ripetersi spesso: diverse valutazioni di questo errore, diverse cause e diverse soluzioni sono di conseguenza possibili.

Non aprire nuove finestre senza motivo.

Non è un ordine tassativo (si veda l’articolo sulle finestre modali). Ma mi capita spesso di utilizzare o analizzare form che aprono nuove finestre, a volte a dimensione intera (in modo che se l’utente non se ne accorge non funziona più il tasto back del browser), altre di dimensioni più piccole. In alcuni casi particolarmente problematici, vi sono 5 o 6 finestre che si aprono in successione. Al punto che si perde facilmente la relazione fra di esse. Inutile dire che vi sono altri modi per chiedere informazioni specifiche, come riferiamo in un precedente articolo, e che vanno dove possibile preferiti.

Messaggi e recupero dell’errore

I messaggi d’errore dovrebbero essere presentati in pagina, contestualmente al punto in cui l’errore si verifica.

Non dovrebbero essere cioè presentati solo con un alertbox, che non ha alcun riferimento al contesto della pagina2. In ogni caso, a beneficio di tutti, gli errori devono essere segnalati in prossimità del campo interessato.

In questo esempio i messaggi di errore sono pertinenti ai singoli campi. Un riepilogo dell’errore può comunque essere utile in cima a tutti i campi.

Quando presentare l’errore? Vi sono due soluzioni a seconda delle tecniche che si usano. Con tecniche lato server (php, asp, ecc.) gli errori sui campi vanno presentati al ricaricamento della pagina dopo il tentativo di invio. Con tecniche lato client (ajax, javascript) è possibile presentare i messaggi di errore contestualmente. E’ possibile provvedere anche alla validazione del campo in maniera asincrona (si vedano alcune tecniche Ajax per questo). Per ragioni di accessibilità è bene duplicare i controlli anche con tecnologie lato server.

I messaggi di errore devono essere presentati in un linguaggio chiaramente comprensibile e spiegare all’utente cosa dovrebbe fare.

Il linguaggio deve spiegare in maniera comprensibile quale sia l’errore e soprattutto cosa dovrebbe fare l’utente a quel punto. Luca Chittaro presenta un evidente esempio di violazione di questa linea guida in uno degli ultimi post del suo blog, riguardante il sito della Ryanair.

Dovrebbe essere possibile tornare indietro a modificare senza difficoltà i passaggi precedenti.

Vale per i form suddivisi in più pagine. In quei casi ci dovrebbe essere un tasto “indietro”, sulla sinistra in cima e/o in fondo alla pagina, opposto ad un tasto “avanti” che dovrebbe stare sulla destra, per consentire di tornare a modificare le impostazioni precedenti.

In quel caso, anche i dati inseriti dall’utente nella pagina che poi non ha completato, dovrebbero essere mantenuti quando egli vi ritorna.

Un esempio di layout di form
Un esempio di presenza di tasti “indietro” e “continua” (qui preferito ad “avanti”) in un form su più pagine. Non viene presentato però alcun riferimento a quante pagine si devono compilare. Inoltre è particolarmente mal riuscito il layout visivo.

Il sistema dovrebbe tollerare più formati per l’inserimento dei dati oppure vincolare chiaramente al formato necessario

Il problema è particolarmente complesso per tutti i dati di tipo numerico, come date o codici. Ma è importante approfondirlo anche per altri tipi di interfaccia. Si vedano per esempio le soluzioni di tre mascherine per le mappe, che richiedono quindi in input un indirizzo:

Interfaccia di input per le mappe di Google
L’interfaccia per le mappe di Google consente l’inserimento in formato testo. Accetta un’unica stringa, e si incarica di interpretare via e città.
Tuttocittà invece richiede di spezzare i dati su più campi.
Anche Mappy richiede di spezzare i dati su più campi. Ma se lo compilate dopo esservi abituati a Tuttocittà rischiate di sbagliare l’inserimento, perché il layout visivo è simile, ma l’ordine dei campi è cambiato. Che senso ha usare un layout simile alla concorrenza, ma cambiarne il funzionamento? Se esiste un precedente diffuso, è meglio per gli utenti che anche i concorrenti mantengano questo standard. Oppure, che usino uno standard chiaramente diverso e più efficiente, come nel caso della linea unica di Google Maps.

Complessità della procedura

Dovrebbero essere richieste solo le informazioni strettamente necessarie

Compilare i form è noioso e a rischio di errore. Perciò i form dovrebbero essere semplici. Se ci sono informazioni che possono essere dedotte dal sistema da altri dati inseriti dall’utente (ad esempio il codice fiscale qualora fossero già stati inseriti luogo e data di nascita) bisognerebbe evitare di chiederle. Ma soprattutto se ci sono informazioni opzionali, che non sono necessarie al sistema, andrebbero omesse. Minore è il numero di campi, meglio è per l’utente. Questo è tanto più vero quanto più il form è complesso.

Per procedure che si articolano su più pagine, dovrebbe esser chiaro in ogni momento quanti passaggi sono necessari e a quale punto della procedura ci si trova.

Spesso i form sono articolati su più pagine senza anticiparlo all’utente con strumenti che consentano di anticiparsi quanti passaggi saranno necessari. Un esempio positivo di chiara segnalazione dei passaggi della procedura viene da blogger.com:

Un esempio di indicazione dei passaggi successivi in Blogger

Si faccia attenzione a rendere cliccabili i punti precedenti della procedura solo se è previsto che l’utente possa tornarci. Spesso i punti successivi non sono cliccabili perché l’utente ci può arrivare solo dopo aver effettivamente inserito i dati.

I form complessi dovrebbero essere raggruppati in aree tematiche affini, in modo da diminuirne la complessità, attraverso spazi, allineamenti, o eventualmente cornici o sfondi.

Il marcatore fieldset può essere usato per raggruppare fra loro gruppi di campi che sono tematicamente affini all’interno di in un’unica pagina. Ad esempio, si possono raggruppare tematicamente i campi per richieste anagrafiche, separandoli, in marcatura e visivamente, dai campi sulla professione. In questo modo si danno degli agganci visivi all’utente che rendono la pagina più affrontabile, un po’ come quando si separano i paragrafi di testo, con pause interne che aiutano inoltre a rafforzare la coerenza semantica dei diversi gruppi. Questa linea guida vale sia come espediente di organizzazione visiva che di rafforzamento semantico.

Dovrebbero essere chieste per prime informazioni semplici, che l’utente possa fornire senza sforzo.

Mi è capitato durante le mie analisi di incontrare moduli di finanziamento che richiedono prima il codice fiscale (o altri dati astrusi) del nome dell’utente. Questo è ostacolante: può darsi che l’utente non abbia sottomano il codice fiscale, mentre è improbabile che non si ricordi il suo nome. Poi offre una cattiva immagine, come se l’azienda considerasse gli utenti dei numeri e dei codici, anziché delle persone. Okay, anche se è così, non è detto che la cosa migliore sia esplicitarlo…

In generale, le prime informazioni dovrebbero essere semplici per incoraggiare l’utente. Una volta iniziato a compilare, è meno probabile che un utente abbandoni. Se invece vi è un ostacolo fin dall’inizio, è più probabile un abbandono.

Percepibilità

E’ preferibile utilizzare sfondi bianchi o neutri

Questo aumenta di solito la leggibilità dei form, come in qualunque altra pagina: ecco un esempio di linea guida generale che è bene applicare specificatamente anche ai form

E’ preferibile usare un colore di primo piano con forte contrasto, preferibilmente nero.

Ovviamente fa il paio con la precedente linea guida. Spesso per attutire il contrasto si usano testi grigi nella presunzione che siano più eleganti, ma sono anche estremamente meno leggibili, soprattutto per chi ha il minimo problema di vista.

I testi hanno una dimensione sufficiente per garantire la migliore leggibilità

Come per tutti i testi, dovrebbe essere scelta una soglia di leggibilità minima sufficiente a farsi leggere senza problemi da tutti (10-12 pixel). Il problema è forse meno urgente a causa del recente metodo di ingrandimento delle pagine usato dai nuovi browser (ingrandiscono l’intera pagina e non solo il testo). Non abbiamo però alcun dato su quanti utenti conoscano e usino, alla bisogna, la funzione di ingrandimento dei browser stessi.

Ridurre al minimo il rumore visivo del form

Ad esempio eliminando o riducendo colori, bordi, sfumature inutili o ridondanti: bastano già etichette e campi a creare affollamento visivo. Riducete al minimo tutto il resto.

Il modulo qui sopra è ordinato, ma i bordi e gli sfondi appesantiscono visivamente il modulo.
Già solo eliminando le bodature nere, senza altri interventi, l’impatto visivo ne viene migliorato. Naturalmente questo è solo un primo passo di una necessaria ristrutturazione del form, ma dimostra quanto alcuni dettagli visivi possano essere importanti.

Organizzazione spaziale

Le etichette verbali dovrebbero essere alllineate coerentemente fra loro e rispetto ai campi

Sull’allineamento delle etichette esiste uno studio di Matteo Penzo che trova come la soluzione più efficiente sia l’allineamento sopra il campo; o, se deve essere un allineamento a lato, è preferibile l’allineamento a destra (come nella seconda immagine di questo articolo), in modo da mantenere così una distanza costante fra le label e i campi. In ogni caso questo allineamento deve essere coerente in tutto il form.

La ricerca riguarda il tempo di lettura ed è stata condotta con l’eye-tracking in una pagina priva di design: i risultati, per ammissione dello stesso autore dovrebbero essere ulteriormente verificati in casi più complessi e reali. Ma è certamente utile capire che minore è la distanza fra label e inizio del campo, migliore è la percezione da parte dell’utente.

I campi dovrebbero essere di larghezza uguale, od omogenea, per quanto è possibile.

Uno degli aspetti visivamente meno gradevoli dei form sono i campi di lunghezza differente, caoticamente disallineati uno sull’altro. E’ preferibile scegliere da due a 4 dimensioni standard per i campi (a seconda del tipo di dato) e utilizzarli coerentemente, in modo da avere campi allineati ordinatamente per quanto possibile. L’esempio di blogger in cima all’articolo offre un’idea di quel che si intende.

Appropriatezza semantica dei comandi, delle funzioni e utilizzo delle convenzioni/affordance

Accertarsi di utilizzare check box, select e radio button in maniera appropriata al tipo di domanda.

Bisogna rispettare il significato di ogni widget, di ogni oggetto di selezione di un form. In particolare, è bene distinguere quando usare i radio button (pulsanti di opzione) o i checkbox (caselle di spunta: non sono la stessa cosa. I radio button servono a selezionare opzioni esclusive. E in quel caso è bene fornire anche un metodo per deselezionare l’opzione nel caso di campo opzionale (si/no/nessuna selezione, per esempio), perché altrimenti dopo una selezione accidentale non è più possibile deselezionare l’opzione

I checkbox sono invece utili nel caso di più risposte valide contemporaneamente, e non hanno bisogno di opzioni di deselezione perché si possono deselezionare ricliccandoci sopra.

Il select, nella variante a tendina o a box, può sostituire tutte e due queste opzioni, a seconda dell’uso o meno dell’attributo multiple. Tuttavia va valutato bene quando usare il select e quando radiobutton o checkbox, perché il select tende ad essere più difficile da manovrare e ad occultare le voci. E dunque è necessaria un’ulteriore linea guida…

Evitare l’elenco a tendina per un numero di opzioni inferiore a 4-5

…L’uso delle tendine (elemento select) è consigliato quando ci sono più di 4-5 opzioni, e l’uso dei radio button (cui il select nella versione base è sostanzialmente equivalente) rischia di occupare troppo spazio. Usare il select per 4/5 voci soltanto è invece inappropriato perché rischia di occultare le opzioni (a meno di non usare il select box). La tendina è inoltre più complicata da usare per gli utenti inesperti.

Quando è molto importante (ad esempio per il profumo dell’informazione, per dare suggerimenti sui contenuti) far vedere le singole opzioni, può essere preferibile usare radiobutton o checkbox anche per più di 5 opzioni.

I campi obbligatori devono essere identificati in maniera chiara e univoca

E’ sorprendente, ma dopo anni di web esistono ancora molti form professionali di servizi finanziari, che dimenticano di indicare fin da subito quali campi sono obbligatori e quali non lo sono. L’indicazione deve essere esplicita per ogni campo, a meno che tutti siano obbligatori od opzionali, nel qual caso va indicato in cima al form.

I campi obbligatori dovrebbero essere evidenziati usando non soltanto il colore (ad esempio con un asterisco o con un la dicitura “richiesto”)

L’uso del solo colore porta ad ovvi problemi di accessibilità.

Punti di azione

E’ chiaro dalla home page qual è il link, il tasto o il punto di partenza del form

Uno degli aspetti meno chiacchierati e discussi di un form è che spesso non è affatto chiaro come si arriva al form. Spesso nella home page di un sito importante, che richiede agli utenti di compilare un form, c‘è un link piccolisssimo o seminascosto che è l’unico modo per andare alla pagina del form. Se il vostro form è importante, rendete più evidente il punto di partenza del form fin dalla home page. Meglio ancora…

Rendete possibile fin dalla home page l’inserimento dei primi dati nel form

…Iniziate il form in home page, magari con solo due o tre campi. In questo modo è più probabile che l’utente lo noti, e magari inizi a compilarlo.

E’ sempre chiaro in ogni fase del flusso d’azione quale è il prossimo oggetto che attiva l’azione?

Spesso i messaggi testuali invitano l’utente a compiere un’azione (proseguire, riprovare), ma nell’interfaccia non è chiaro come l’utente dovrebbe compiere questa azione. Magari perché non è presente un bottone! Nell’esempio sotto, mancano completamente bottoni o altri inviti all’azione per trasformare la prenotazione in acquisto.

Come trasformare la prenotazione in acquisto? Cliccando su un link che non sembra un link!

In realtà l’utente deve cliccare sul link con il codice alfanumerico, per andare ad una pagina dalla quale fare un acquisto. Totalmente incomprensibile. Ho personalmente osservato utenti arenarsi a questo punto di una procedura d’acquisto.

Altre fonti sui form

  • Le basi per costruire form in html accessibili e usabili sono fornite ad esempio dal sito del LAU del Csi Piemonte. Se volete potete provare a scaricare anche un mio vecchio modello di pagina per form html accessibili costruito per il mio libro. Un po’ datato, ma può essere un punto di partenza per chi non ha esperienza.
  • Marlenek (Daniele Vietri) pubblica sul suo blog due interessanti esempi reali di problemi con i form, che ricadono in alcune delle categorie già viste.
  • Claudio Garau commenta un articolo di Gerry McGovern sull’uso dei tasti Ok/cancel negli alertbox (in breve, “Ok” va usato solo quando è appropriato al contesto: per segnalare un errore far premere ok è fuorviante e alla lunga può portare a errori: non c‘è niente di ok nel segnalare un errore, e l’utente finisce per premere il tasto per abitudine, non perché capisce quello che viene comunicato).
  • Può essere interessante anche un riepilogo di Nielsen sul perché il più delle volte è bene evitare il tasto Reset nei form (foriero di errori non eliminabili…)
  • Su Html.it vi è la traduzione di un articolo presente su Alistapart per migliorare i propri form.
  • Luke Wroblewski ha pubblicato un libro dedicato interamente ai form. Sono disponibili anche delle sue interessanti slide (è un PDF di quasi 4MB) presentate ad un convegno del 2007.
  • Se siete amanti delle soluzioni di codice, Peter Paul Koch spiega come migliorare i form nascondendone alcuni finché non diventano necessari agli utenti attraverso javascript e l’uso del Dom del W3C.
  • Molto interessante infine la pagina di usability.gov sul processo di creazione di un form, dalla carta ai test di usabilità. Consigliatissimo.

1 Uso il genere maschile per il termine “form”, seguendo le indicazioni secondo le quali si dovrebbe assegnare il genere della corrispondente parola italiana per le parole straniere che vengono introdotte. Trovo più appropriata la traduzione di form con “modulo”, che con altre alternative come “mascherina” o “scheda”, che sono comunque sinonimi accettabili. Come sottolinea l’Accademia della crusca, anche l’uso di “la form”, al femminile, può essere corretto, e dunque non ne faccio una questione decisiva: spiego solo la ragione per cui adotto la forma maschile. ^

2 Alcuni utenti ciechi mi hanno segnalato durante alcuni test di gradire l’alertbox come mezzo di segnalazione di errori in linea, direttamente sul singolo campo durante la compilazione. Perché se l’errore viene segnalato solo nella pagina successiva, essi devono riposizionarsi sul campo dell’errore, e farlo sequenzialmente in una pagina complessa è più difficile che per coloro che ci vedono. La segnalazione degli errori dovrebbe dunque essere migliorata, probabilmente, anche per ragioni di accessibilità, offrendo segnalazioni multimodali e, in una pagina di riepilogo, inserendo anche forse dei link interni in cima alla pagina per segnalare il punto dell’errore. Tuttavia, queste soluzioni andrebbero studiate e validate, e vanno prese per ora solo come spunto di approfondimento. ^

Progettare la struttura dei siti: ampiezza o profondità?

La struttura ipertestuale di un sito è la forma che assumono i suoi collegamenti gerarchici a partire dalla home page. La struttura organizza il contenuto in più livelli, e può avere varie forme, varie ampiezze e profondità. Solitamente ad una certa struttura corrispondono dei menu che la rappresentano. Uno dei principali problemi progettuali è decidere la struttura ipertestuale e di navigazione migliore affiché gli utenti trovino facilmente ciò che cercano.

È dunque meglio avere menu di poche voci, ciascuna delle quali porta ad altre pagine con altri menu di poche voci, e così via, in molti passaggi (siti poco ampi, ma profondi), o è meglio avere molte voci nei menu fin da subito con un minor numero di passaggi (siti larghi e piatti)? Un esempio è nelle immagini qui sotto.

Un esempio di struttura ampia e poco profonda: 11 pagine al primo livello, ognuna delle quali ha 5 pagine figlio.
In questo secondo esempio vediamo la rappresentazione ad albero di una struttura profonda e stretta, con 3 pagine al primo livello, ognuna delle quali ha due pagine figlio, ognuna delle quali ha ancora due pagine figlio, ognuna delle quali ha altre due pagine figlio. Entrambe le immagini sono tratte dalla ricerca (sotto citata) di Bernard.

Privilegiare siti piatti

Le prime ricerche sulla struttura dei menu negli ipertesti risalgono agli anni 80, ben prima dell’avvento del web, e ottengono un risultato chiaro:

È meglio avere strutture ampie e poco profonde (cioè siti piatti, come nella prima delle figure qui sopra).

Con menu di molte voci e minor profondità gli utenti tendono a trovare più rapidamente ciò che cercano (Miller, 1981; Snowberry, Parkinson, & Sisson, 1983; Larson & Czerwinski, 1998; Norman, 1990). Però vi è un livello oltre il quale il numero di voci ad uno stesso livello deve essere contenuto, e la navigazione deve essere estesa in profondità. E’ difficile stabilire quale sia il limite massimo per le voci di un menu, ma, ad esempio, nel pionieristico lavoro di Miller, 64 voci su una stessa pagina portavano ad una performance peggiore rispetto alle condizioni intermedie che prevedevano due livelli di 8 voci ciascuna o 3 livelli di 4 voci ciascuna.

Sul web, dove la mole di pagine può essere molto alta e tende a crescere con il tempo, è necessario trovare dei compromessi, perché non è pensabile avere menu composti da decine di voci solo per mantenere il sito abbastanza “piatto” ed è dunque spesso necessario provvedere ad una articolazione in più livelli.

La struttura dei siti dipende dunque in maniera rilevante da come è costituito il suo contenuto e da come è possibile organizzarlo, tenendo anche conto dei seguenti aspetti:

  • un’adeguata qualità semantica delle etichette usate per i menu (devono essere sufficientemente precise – non ambigue – da essere correttamente scelte dagli utenti), di cui abbiamo accennato nell’articolo dedicato al profumo dell’informazione.
  • il tipo di compito eseguito dell’utente: non per tutti i tipi di compito la struttura migliore è la stessa.

L’influenza del tipo di compito

Già negli anni ’80 vi sono ricerche che evidenziano come l’organizzazione ottimale degli strumenti d’accesso ai nodi di un ipertesto fosse differente a seconda che lo scopo per l’utente fosse farsi un’idea generale di un contenuto organizzato come ipertesto, oppure trovare specifiche informazioni puntuali.

Recentemente Bernard ha condotto un’interessante ricerca dove ha comparato due tipi di compiti con 6 diverse strutture ipertestuali di circa 300 nodi ciascuna rappresentanti pagine in un sito di e-commerce. Le strutture andavano da un minimo di due livelli, articolati con un primo livello a 12 link e un secondo livello con 27 link (12 × 27), fino a strutture molto profonde, dove il primo livello consisteva di soli due link, seguito da un livello di 3 link, ancora da uno a 2, poi ancora a 3, ancora a 2 e ancora a 3 (2 × 3 × 2 × 3 × 2 × 3).

Ha osservato che se gli utenti ricevono istruzioni precise (esplicite) su cosa cercare (un orologio) sono in genere più rapidi che nel caso di ricerche basate su scenario o implicite (“devi fare un regalo ad un pilota che è sempre di fretta perché deve costantemente rispettare tabelle orarie precise”). Tuttavia le interazioni con le diverse strutture dei siti non erano significative: nessuna struttura era significativamente migliore o peggiore in relazione a solo un tipo di task.

Oltre la diatriba fra ampiezza e profondità: le forme delle strutture dei siti a confronto

La ricerca di Bernard si sofferma quindi sull’effetto che le 6 diverse strutture ipertestuali hanno su variabili come il tempo di ricerca e altre misure di efficienza, come il numero di deviazioni dal percorso ideale e il numero di ricorsi al tasto “back” del browser.

Con strutture più ampie e piatte (due e tre livelli, cioè 12 × 27 e 11 × 5 × 5) gli utenti commettono significativamente meno deviazioni e compiono navigazioni significativamente più veloci rispetto a quasi tutte le condizioni con un numero maggiore di livelli, in ciò confermando i principali risultati delle ricerche nel settore. La sorpresa sta nel “quasi”: infatti le due strutture più piatte non portano a risultati significativamente migliori di una struttura a 4 livelli, la 6 × 2 × 2 × 12, che ottiene risultati paragonabili.

Ma c‘è un altra scoperta notevole: una delle strutture a 4 livelli, la 4 × 4 × 4 × 4 è risultata meno efficiente non solo di un’altra struttura a 4 livelli, la 6 × 2 × 2 × 12, ma anche di una struttura più profonda, come la 3 × 2 × 2 × 2 × 12!

Ciò che Bernard conclude è che la profondità è almeno altrettanto importante della forma della struttura. Il risultato sperimentale sembra cioè suggerire che, almeno sopra i 2 o 3 livelli di profondità, le strutture convesse siano da preferire a strutture relativamente costanti. Cioè, strutture con un alto numero di link ai primi e agli ultimi livelli, e un minor numero di link (di scelte possibili) ai livelli intermedi sono da preferire a strutture con un costante numero di link su tutti i livelli. Analoga conclusione era stata ottenuta da una ricerca di Norman e Chin, 1988, ma solo per i compiti impliciti (basati su scenario).

La spiegazione offerta per questi risultati è abbastanza intuitiva e congruente con la teoria del “profumo dell’informazione”: offrire all’inizio della navigazione un maggior numero di indizi semantici che rappresentino il contenuto dei livelli successivi aiuta a scegliere la strada giusta. Al livello finale, avere un elevato numero di link aiuta a ridurre l’incertezza della scelta proprio dove è più importante scegliere il contenuto corretto.

Viceversa, ai livelli intermedi avere troppe possibilità di scelta, in un momento in cui la precisione semantica è necessariamente intermedia, aumenta le probabilità di scegliere la strada sbagliata. Potremmo dire che “distrae”.

Oltre l’efficienza

Zaphiris ha pubblicato una ricerca che prende in considerazione anche la percezione di difficoltà, oltre che i tempi di esecuzione, per 5 diverse strutture ipertestuali, e ha notato che non necessariamente le strutture più efficienti sono le preferite. In particolare, sembrano preferite le strutture che lui chiama eterogenee, cioè con maggior diversità: prima pagina con 4 link e seconda pagina con 16, o prima con 16 e seconda con 4, rispetto a strutture dove i livelli successivi avevano un numero di link uniforme. Il suo studio è congruente con quello di Bernard, anche se il tipo di strutture utilizzato da Zaphiris non lo porta a concludere che sono preferibili le strutture convesse, soprattutto perché… lui non utilizza strutture convesse: quelle che chiama eterogenee sono composte da soli due livelli, troppo pochi per la convessità.

Tuttavia viene scoperto che anche a livello di preferenze le strutture omogenee (o costanti, come le chiama Bernard) sono poco gradite, oltre che poco efficienti. Il giudizio soggettivo conferma indirettamente le spiegazioni “psicologiche” tentate sopra delle ragioni di queste prestazioni.

Alcune conclusioni

Le ricerche più recenti sembrano confermare l’idea che, in generale:

  • per i siti basati sul contenuto strutture ampie e poco profonde siano preferibili a strutture strette e profonde
  • per siti la cui articolazione dell’informazione è complessa e necessita di un numero maggiore di livelli, è importante usare strutture convesse, con un maggior numero di link all’inizio e alla fine del percorso
  • l’efficienza non è tutto, perché le preferenze degli utenti non sempre coincidono con le metriche di efficienza: in casi controversi è particolarmente importante verificare le scelte con campioni di utenti
  • appare comunque assodato che vanno evitate strutture omogenee o costanti.

Rapporti con l’architettura dell’informazione

Ricordiamo che la struttura di un sito non è la sua architettura dell’informazione: è la struttura dell’albero ipertestuale principale. L’architettura dell’informazione va oltre, stabilendo vari tipi di relazioni fra i dati, non solo quella gerarchica. Fra nodi dell’albero possono in altre parole esistere molti modi per accorciare le distanze e saltare di sottoramo in sottoramo, basati sulla correlazione delle informazioni secondo chiavi diverse (o secondo faccette che enfatizzino una descrizione diversa del contenuto rispetto a quella dell’albero gerarchico).

Tuttavia, anche adottando classificazioni multiple delle informazioni, è bene che la struttura gerarchica principale di un sito (ma anche quella eventuale delle faccette o di altri criteri adottati) tenga conto dei risultati qui esposti ogni qual volta sia prevista una navigazione dell’utente attraverso menu successivi, e si preferisca una strutturazione dei menu e delle voci che sia, oltre che semanticamente significativa per gli utenti, ampia soprattutto all’inizio e alla fine del percorso di navigazione. Meglio invece se i livelli intermedi vengono eliminati: ma se non possono venir eliminati, è senza dubbio preferibile che a quei livelli venga ridotto il numero delle scelte disponibili, per evitare di portare fuori strada gli utenti.

Bibliografia

Kiger, J. I. (1984). The depth/breadth tradeoff in the design of menu-driven interfaces. International Journal of Man-Machine Studies, 20, 201-213.

Larson, K. & Czerwinski, M. (1998). Web page design: Implications of memory, structure and scent from information retrieval (Pdf, 1MB circa). Proceedings of the Association for Computing Machinery’s CHI ’98, 18-23.

Miller, D.P. (1981) The Depth/Breadth Tradeoff in Hierarchical Computer Menus, Proc. HFES 25th Annual Meeting, 296-300

Norman, K., L. (1990). The psychology of menu selection: Designing cognitive control of the human/computer interface. Norwood, NJ: Ablex Publishing co.

Norman, K., L. & Chin, J. P. (1988). The effect of tree structure on search performance in a hierarchical menu selection system. Behaviour and Information Technology, 7, 51-65.

Snowberry, K., Parkinson, S., & Sisson, N. (1983). Computer display menus. Ergonomics, 26, 699-712.

Zaphiris, P. (2000). Depth Vs Breadth in the Arrangement of Web Links, Proceedings of the 44th Annual Meeting of the Human Factors and Ergonomics Society, 139-144 (disponibile anche su Scribd).

Quando gli errori degli utenti devono determinare modifiche dell’interfaccia?

Un lettore, riprendendo un discorso fatto qualche tempo fa su questo sito, pone sul suo blog un quesito interessante: se è vero che gli utenti comettono errori perché “usano prima di capire”, dice, non sarà bene sfruttare i loro errori per progettare le varie funzionalità? Interpretare cioè i loro errori come consulenze gratuite? Attraverso l’errore l’utente ci suggerisce come si aspetta di usare il sistema. Ci insegna il suo modello mentale.

Questo è proprio il punto di forza dell’usabilità: imparare empiricamente dall’utente. Nei commenti di quel sito però qualcuno ammonisce: assecondare sempre l’utente può dar vita ad incongruenze. Ed è vero anche questo. Dovremmo “assecondare” gli errori che hanno un’elevata probabilità di essere commessi anche da altri (sebbene non da tutti) a patto di non introdurre modifiche peggiorative.

Ma come capire quali errori devono dar vita a modifiche e quali sono idiosincratici, o, peggio, ci porterebbero a fare modifiche dagli effetti collaterali negativi?

Il caso delle caselle di input che non comunicano chiaramente la propria funzione

Un esempio può aiutare a capire meglio. Supponiamo che io scambi la casella di iscrizione alla newsletter per la casella di ricerca di un sito e invece di inserirci il mio indirizzo email ci inserisca il termine che voglio ricercare, commettendo così un errore.

Può darsi che quel giorno io sia mezzo addormentato, cosa non improbabile, oppure che ci sia un problema dell’interfaccia. Se lo stesso errore viene commesso da diversi utenti, probabilmente quella casella è mal disegnata. Ma anche se non viene commesso da molti utenti può darsi che la casella sia comunque migliorabile. Come capirlo?

Analizzando posizione, forma, colori, testi utilizzati. Forse è posizionata dove molti si aspettano un motore di ricerca. O forse c’è una cattiva comunicazione del formato del dato, o magari etichette verbali confondenti. Una casella senza anticipazione del formato (ad esempio attraverso il testo di segnaposto) o con messaggi generici è più “fraintendibile”:

Fig. 1 – Nonostante il titolo “newsletter”, un utente distratto può scambiare questo elemento per un search box, se posizionato in posizione ambigua, complice anche l’assenza di informazioni sul dato nella casella e la genericità del bottone. Infatti, mentre il titolo può essere “sorvolato”, casella e bottone hanno maggiori probabilità di essere visti.
Fig. 2 – In questa alternativa, il contenuto dell’input box riduce la probabilità di errori
Fig. 3 – In quest’ultimo esempio, il formato del dato viene esemplificato e il verbo nel bottone cambiato, riducendo al minimo l’ambiguità.

L’errore, se viene rilevato, deve sempre dar vita ad un ripensamento. Ma non tutti gli errori devono dar vita ad una modifica dell’interfaccia. Se cambiare l’interfaccia significa sconvolgere le aspettative degli altri utenti – ad esempio invertendo le posizioni di casella di iscrizione alla newsletter e casella di ricerca, per venire incontro al mio incauto errore – potremmo addirittura peggiorare le cose. Ad esempio, potremmo scoprire che ora è la maggioranza degli utenti che inserisce l’indirizzo email nella casella di ricerca! Al contrario, la modifica illustrata nelle immagini qui sopra è sicuramente migliorativa, perché non introduce altre ambiguità, ma, anzi, le elimina.

Gli errori vanno insomma filtrati e analizzati. Ed è questa è la parte più difficile del lavoro.

Per questa ragione rilevare gli errori solo attraverso procedure “tecniche” come l’analisi dei file di log, senza cioè avere la possibilità di osservare l’utente che commette l’errore ed eventualmente interagire con lui, è estramamente limitante. Se interagiamo con l’utente possiamo discretamente approfondire le ragioni cognitive per cui l’errore si è verificato, ricostruendo i processi mentali con tecniche di rispecchiamento e con interviste post-test. In ogni caso, se possibile, non con domande dirette, perché l’utente tenderà in quel caso a dare una spiegazione qualsiasi, anche se non è consapevole delle ragioni della difficoltà. Ma se non interagiamo con l’utente e ci limitiamo ad analisi tecniche disponiamo solo di una mole di dati sporchi, senza possibilità di capire cosa sia un errore e cosa non lo sia, e cosa abbia determinato quei comportamenti.

L’utente “tipo” non esiste, eppure ci assomiglia

Una delle critiche che vengono rivolte all’usabilità è che:

“ogni utente è diverso, non esiste l’utente tipo, perciò il designer deve prendersi le sue responsabilità e progettare, non farlo fare all’utente”.

Vero. Ma alcuni errori curiosamente ricorrono. Dipendono anche dall’interfaccia e possono essere evitati. E gli utenti hanno in comune molto più di quanto si pensi:

  • Il verde e il rosso nella nostra cultura hanno più o meno lo stesso significato simbolico un po’ per tutti, anche se ciascuno di noi è diverso.
  • Il verso di lettura è sempre da sinistra a destra e dall’alto in basso.
  • Il fuoco dell’attenzione, fino alla prossima mutazione genetica, è sempre uno solo.
  • Le regole di organizzazione percettiva sono simili.
  • E molto altro…

Certo, poi ci sono le differenze. Di conoscenze, di ragionamento, di attenzione. A volte queste differenze generano problemi, altre solo diversi modi di usare l’interfaccia, perfettamente accettabili. Alcuni “heavy users” di Gmail non si rendono ad esempio conto che esistono le label e che è possibile filtrare le mail, mentre altri utenti che a rigor di classificazione dovremmo chiamare “inesperti” le usano quotidianamente con gran successo e senza difficoltà di comprensione. Questo non impedisce però a Gmail di essere usata proficuamente da entrambi i gruppi di utenti.

Per queste ragioni le modifiche delle interfacce sulla base degli errori devono essere del tipo “win-win”, come si dice in epoca di globalizzazione… Fare il bene di alcuni utilizzatori senza penalizzarne degli altri, o almeno fare in modo che il saldo finale fra facilitati e penalizzati sia positivo. E per far questo bisogna discriminare, analizzare, verificare.

Un’eccezione sono le modifiche targettizzate. Cioè, quando non ci curiamo se qualche gruppo di utenti viene penalizzato, perché non fa parte del nostro target. Bisognerebbe essere sicuri che lo stiamo facendo consapevolmente, però, e che non ci siano soluzioni migliori. Il più delle volte, non vedo né tener conto degli errori degli utenti, né pesare i pro e i contro delle scelte. Pensate a tutti i siti che due anni fa sono passati al 1024 × 768 senza considerare il 20% allora esistente di utenti che navigavano con l’800×600. Ma d’altra parte non vedo neanche progettare piazze e ponti non scivolosi…

Come valutare gli errori dell’utente

Se proviamo a stilare alcune linee guida o, meglio, dei criteri euristici su come valutare quando gli errori dell’utente debbano portare veramente a modifiche dell’interfaccia, otteniamo un elenco del genere:

  1. Quando l’errore, qualunque esso sia, è compiuto da più di un utente. Se più di un utente in un test commette l’errore, è assai probabile che molti altri lo faranno nella realtà.
  2. Quando l’analisi dell’errore evidenzia una scarsa chiarezza delle label verbali, siano esse testi, titoli, etichette di bottoni, testi interni ad elementi dei form, link. Una label verbale ambigua genera nel migliore dei casi dei rallentamenti dovuti a dubbi, nel peggiore dei casi errori.
  3. Quando l’analisi mette in evidenza che vi sono segnali non verbali, ma dotati di valore semantico (icone, colori, posizioni) poco chiari. Si fa presto a fare un test di comprensibilità delle icone. Mettetele fuori contesto e chiedete a una decina di persone di scrivere sotto a ciascuna di esse cosa significhino secondo loro, senza dire altro. I risultati parleranno da soli.
  4. Quando l’analisi dell’errore mette in evidenza che la causa potrebbe essere una mancata coerenza dell’interfaccia. Ad esempio, un elemento che assomiglia ad un altro, presente altrove, che si comporta in un modo diverso, e che dà vita a conseguenze diverse. Bottoni che cambiano colore, labeling o posizione, menu che cambiano ordine delle voci o fanno sparire voci, sono esempi di incoerenze che possono creare errori.
  5. Quando l’errore si può eliminare con una modifica ovvia e poco costosa dell’interfaccia.
  6. Tutto questo a patto che la modifica, rianalizzata, non introduca uno dei casi precedenti.

Più difficile è stabilire quando non cambiare l’interfaccia. Ecco alcuni casi tipici:

  1. Quando non si è capito perché avviene l’errore; in tal caso è necessario approfondire le ragioni prima di ipotizzare la soluzione.
  2. Quando la soluzione non rende l’interfaccia più chiara.
  3. Quando la modifica interferisce con altre convenzioni diffuse o introduce ambiguità semantiche.
  4. Quando la modifica penalizza qualche altro gruppo di utenti (elimina o modifica funzionalità gradite o usate dagli altri) che noi non vogliamo penalizzare.

I limiti dell’osservazione degli errori dell’utente

Queste “linee di condotta” si applicano a modifiche puntuali, focalizzate, dell’interfaccia. Non riguardano i cambi completi di modello concettuale, ovvero del funzionamento complessivo del sistema. Le “rivoluzioni”, quelle che modificano il nostro modo di lavorare con un software.

Un software consolidato difficilmente può permettersi modifiche di tali portate, perché deve tener conto degli utilizzatori già acquisiti, che hanno dunque imparato alcuni automatismi che la “rivoluzione” renderebbe inefficaci, innalzando, almeno inizialmente, il tasso di errore e di insoddisfazione. E’ accaduto anche per una delle recenti versioni di Microsoft Office, per esempio, con l’introduzione del ribbon, che all’inizio pare abbia disorientato qualche utente, anche se si tratta sicuramente di una modifica utile dell’interfaccia, una volta appresa.

Per quanto riguarda i siti di contenuti, un redesign solo estetico o piccole modifiche architetturali dovrebbero portare a problemi contenuti, perché tali siti sono meno orientati ai task e i cambiamenti interferiscono meno con la memoria procedurale.

Tra le applicazioni (desktop o web), quelle nuove hanno la possibilità, esordendo sul mercato senza la preoccupazione di perdere vecchi utenti, di proporre nuovi modi per svolgere attività vecchie. In quel caso, la rivoluzione riguarda l’intera interfaccia e non va applicato un modello “incrementale” di modifica come quello qui sottinteso. Questo modello va però applicato anche in queste nuove applicazioni a partire dalle successive iterazioni del progetto, per migliorarlo e raffinarlo.

Gli errori degli utenti sono in definitiva importanti strumenti di “consulenza gratuita” a patto che siano elaborati correttamente e non presi – ma nessuno lo pretende – come unica risorsa progettuale. A rendere più morale la (quasi) gratuità della consulenza – non dimentichiamo infatti che ai test gli utenti vanno in qualche modo compensati – c‘è il fatto che i maggiori beneficiari di questa consulenza dovrebbero essere, alla fine, proprio gli utenti stessi.

Usabilità e motori di ricerca

Uno dei problemi più ricorrenti che gli utenti incontrano nei test di usabilità riguarda l’uso dei motori di ricerca interni ai siti che visitano. Di solito questi motori offrono risultati irrilevanti e non consentono di trovare ciò che viene cercato. In una parola: sono terribili. La cosa è confermata un po’ da tutti i professionisti. Addirittura Nielsen nel suo più recente libro trova che il tasso di successo nei compiti di ricerca sia del 33% contro il 66% della generalità dei compiti.

In alcuni test, coloro che hanno usato in precedenza il motore di ricerca interno ad uno specifico sito e non l’hanno trovato soddisfacente, dichiarano di non volerlo più usare, preferendo utilizzare il motore generalista (Google, Yahoo, ecc.) anche per trovare documenti interni ad uno specifico sito: la probabilità di successo è molto più alta!

Eppure i motori di ricerca interni ai siti dovrebbero avere un compito molto più facile, dovendo indicizzare un numero molto inferiore di pagine. Come si spiega una prestazione così negativa? Le possibili cause sono molte e l’argomento è complesso sia dal punto di vista tecnico che da quello dell’interfaccia. Scusandoci per l’eccessiva semplificazione, metteremo qui in luce tre aspetti in particolare.

La lemmatizzazione

La prima ragione è che i motori di ricerca interna ai siti costruiscono indici secondo algoritmi differenti rispetto ai motori generalisti. Compilano un elenco di lemmi e li associano ad un elenco delle pagine che li contengono. La ricerca viene effettuata poi scorrendo l’indice anziché i documenti.

Questo va bene per costruire ricerche lessicali: trovare una parola o una serie di parole nel corpus dei testi. Ma spesso questi motori di ricerca (specialmente se interni ai CMS con cui vengono gestiti i contenuti del sito) non tengono conto della lemmatizzazione (stemming). E’ un’operazione che si fa su tutte le parole al momento di costruire l’indice che il motore userà nella ricerca. Serve a ridurre le parole alla forma più generale presente nel dizionario (da “mangiai” o “mangiando” a “mangiare”). In questo modo quando si cerca una parola si tiene conto delle possibili forme variabili o derivate: i verbi coniugati, i nomi con numero e genere differenti, eccetera. I motori di ricerca della maggioranza dei siti, cioè quelli messi a disposizione dai blog-tool e dai CMS di uso comune (ma anche alcuni strumenti dedicati), compiono spesso una ricerca solo sulle parole inserite e non sui termini che ne stanno alla radice, insomma. Cosa che invece i motori di ricerca generalisti fanno regolarmente.

Il Latent Semantic Indexing

Anche se compiono la lemmatizzazione, la grande differenza fra motori di ricerca interni ai siti e motori tipo “Google” è che questi ultimi usano, fra le altre cose, un sistema di indicizzazione semantica (Latent Semantic Indexing). Ne abbiamo già parlato a proposito dell’usabilità semantica: è un metodo che ricostruisce, grosso modo, le co-occorrenze delle parole in un corpus di testi (le pagine da indicizzare). Così facendo riesce a tener conto dei contesti nei quali le parole si presentano più frequentemente, e accorgersi, per esempio, che “Materazzi” si presenta spesso associato a “Zidane”, ma solo da una certa data in poi. Questo sistema viene chiamato “semantico” perché da queste regolarità nelle co-occorrenze è possibile dedurre “tracce di significato” (che ci sia stato qualche evento in comune fra Materazzi e Zidane, per esempio, attorno ad una certa data).

Il sistema non è “intelligente”: le correlazioni vengono fatte automaticamente, senza intervento umano. E tuttavia questo consente una miglior disambiguazione di alcuni termini di ricerca in rapporto a possibili risultati, in base al contesto. Il risultato migliora se l’utente scrive più parole (e migliora di molto se si tiene traccia delle sue ricerche passate, come Google fa…). Inoltre è meno sensibile ad alcuni trucchi usati per ingannare i motori di ricerca basati sull’aumento artificioso della frequenza delle parole in un testo. Riesce cioè ad eliminare un po’ di falsi allarmi dalla ricerca.

La LSI (o LSA, Latent Semantic Analysis: Google usa una variante brevettata) è molto più complessa di così, ma ciò che ci preme sottolineare è che fa grande differenza rispetto alla qualità dei risultati. Oltretutto la LSA è più efficace su un corpus di contenuti grande e dunque meno adatta a siti piccoli. I motori di ricerca interni, anche se la adottassero, avrebbero molte meno pagine da analizzare rispetto ai motori generalisti, il che porterebbe comunque a risultati di minor precisione.

La popolarità esterna delle pagine

Infine, come sappiamo, i motori generalisti usano la loro conoscenza sulla struttura dei link nel web per valutare la reputazione delle nostre pagine. Non basta che una pagina sia fortemente correlata alle chiavi di ricerca: a parità di correlazione, vengono privilegiate le pagine che hanno molti link in ingresso, cioè che altri hanno linkato sulle loro pagine, giudicandole, si presume, interessanti.

Perchè non possiamo sfruttare queste conoscenze per migliorare i piccoli motori di ricerca usati sui nostri siti? Be’, la lemmatizzazione potrebbe abbastanza facilmente essere introdotta in qualunque motore di ricerca interno ad un sito (si fa per dire: diciamo che è una tecnica abbastanza consolidata). La LSI (o LSA) anche, ma è meno nota, esiste un minor numero di implementazioni diffuse e c’è il limite del minor numero di pagine da indicizzare che porta a risultati meno precisi. La barriera maggiore è probabilmente l’uso dei link esterni come stima della reputazione delle pagine: decisamente fuori portata per la maggior parte dei siti. Queste ragioni spiegano abbastanza bene perché i motori generalisti sono in grado di fare regolarmente meglio rispetto ai motori interni dei siti.

Nessun motore di ricerca è meglio di un cattivo motore di ricerca

Se questi limiti sono difficili da superare, come migliorare l’esperienza degli utenti? Per siti non molto grandi, la soluzione migliore può addirittura essere paradossale: non inserire alcun motore di ricerca. Se il tasso di successo medio della ricerca è infatti più basso rispetto ai compiti basati sulla navigazione, inserire il motore vorrebbe dire abbassare il tasso medio di successo, e toglierlo vorrebbe dire aumentarlo!

Tuttavia, vi sono siti che hanno necessità o traggono vantaggio, per il tipo di materiale e per la sua organizzazione, da un buon motore di ricerca interno. L’indicazione è in questi casi di investire in un servizio dedicato di una terza parte che abbia qualità paragonabile a quella dei motori che i vostri utenti usano di solito.

Linee guida per il motore di ricerca

Per quanto riguarda l’usabilità della funzione di ricerca e della pagina dei risultati, semplificando molto il tema, il consiglio principale è di rimanere aderenti alle convenzioni che gli utenti conoscono meglio. E dunque:

  1. Inserire una casella di ricerca semplice, composta da un unico campo
  2. Inserire un bottone chiaramente visibile che senza ombra di dubbio sia riconoscibile come il bottone che dà il via all’azione
  3. Evitare le ricerche estese a tutto il web: se gli utenti vanno sui motori generalisti anche per cercare nel vostro sito, è improbabile che vogliano fare l’inverso
  4. Evitare opzioni inutili (caselle di spunta, tendine, ecc): vanno tutte interpretate, cosa che gli utenti in fretta di solito non fanno; vietatissimo inoltre usare opzioni impostate di default in senso restrittivo o anomalo.
  5. Mantenere la casella di ricerca abbastanza lunga (Nielsen suggerisce una trentina di caratteri): il motore di ricerca è un’interfaccia a riga di comando, e, sebbene molti utenti inseriscano poche parole, è bene provare ad indurli ad usarne di più, perché migliorerà la qualità del risultato
  6. Il punto precedente, naturalmente, prevede che il motore funzioni di default con un AND logico e non con l’OR. In questo modo tutte le parole chiave prese insieme concorreranno al risultato. L’uso dell’OR fa aumentare irragionevolmente i risultati diminuendone la rilevanza. Se cerco “usabilità dei motori di ricerca”, non ha senso che mi compaiano tutte le pagine che includono la parola “usabilità”, poi quelle che includono “motori”, poi quelle che includono ricerca, poi quelle che includono le diverse combinazioni di queste parole… Se avete pochi contenuti e di conseguenza soffrite di horror vacui, eliminate il motore e concentratevi sul miglioramento della navigazione, finché non avrete più pagine
  7. Offrite opzioni di suggerimento se l’utente non trova risultati o se i termini di ricerca sono anomali, anche con algoritmi di suggerimento ortografico
  8. Ripresentate nei risultati il termine di ricerca usato, già inserito nella casella per successive modifiche
  9. La pagina dei risultati dovrebbe contenere per ogni risultato tre informazioni basilari:
    1. Il titolo della pagina del risultato, linkato alla risorsa; di solito per il testo viene usato il tag TITLE dell’html, dunque per gli autori di contenuti è vitale scegliere accuratamente soprattutto le prime parole del title, quelle che gli utenti scorrono per valutare i risultati
    2. Tre-quattro righe di estratto del testo della pagina, compreso un frammento che contenga la chiave di ricerca; è meglio usare come testo il contenuto della pagina piuttosto che un metatag di descrizione, perché quest’ultimo potrebbe non essere ugualmente significativo per tutte le chiavi di ricerca che riguardano quella pagina; ed è bene che questo testo contenga informazioni ulteriori rispetto al titolo, che consentano all’utente una migliore valutazione del risultato
    3. L’indirizzo della pagina di destinazione.
  10. Poiché l’ordinamento dei risultati dall’alto al basso dovrebbe già seguire un ordine di rilevanza, è pleonastico (e può risultare confondente) indicare percentuali di rilevanza.

Altre linee guida vanno naturalmente tenute in considerazione per specifici aspetti e casi dell’interazione, come la paginazione dei risultati, i messaggi di errore e di feedback in generale, nonché per tipi particolari di ricerca, ma ci ritorneremo eventualmente con maggior dettaglio in un successivo articolo.

La ricerca avanzata

Un’ulteriore considerazione la merita la ricerca avanzata. Benché utile in specifici casi (banche dati, utenti professionalizzati, ricerca su un corpus definito di testi, consultazione di orari), sulla maggior parte dei siti è una complicazione inutile. Inoltre, laddove possibile, è bene seguire la tendenza generale dei principali motori di ricerca sul web, che è quella di utilizzare un unico campo per tutte le selezioni, riducendo al minimo la necessità di spostarsi fra i campi e di interpretarne il ruolo e il formato.
Ad esempio, una selezione per data può essere fatta scrivendo direttamente gli estremi nella casella della ricerca, anziché manipolando diverse tendine. Per esempio scrivendo “usabilità e motori di ricerca, agosto 2008-settembre 2008”.

Questo sistema a campo unico è più efficiente. Si noti per esempio come si possono cercare località su Google Maps usando un unico campo rispetto, per esempio, all’insieme di campi su siti come Mappy o Tuttocittà.

Esempi:

In questo esempio tratto da Google Maps, tutti i parametri della ricerca possono essere scritti in un unico campo, senza spostare le mani dalla tastiera, compiere operazioni mentali specifiche per le selezioni dei diversi campi, controllare l’esattezza del formato, e così via.
In questo caso, da tuttocitta.it, l’inserimento deve essere fatto passando fra campi successivi, di cui è necessario capire il significato e il formato utilizzabile
In quest’ultimo esempio, tratto da mappy.it, non solo si devono usare più campi, ma l’ordine è diverso da tuttocitta.it, nonostante la configurazione visiva del form sia identica! Dunque chi è abituato ad un sito è probabile commetterà errori nell’altro…

La tendenza comune è quella di usare la casella di ricerca in maniera più possibile “intelligente”, cioè interpretando virgole, numeri, inferendo indirizzi, relazioni e formati. Il tutto è chiaramente reso possibile da un motore che non sia soltanto lessicale, ma che incorpori delle informazioni ulteriori: di tipo e formato del dato sulla base del contesto, di clustering semantico, di scopo. La supremazia dei motori generalisti si spiega anche così.

Cos’è lo User-Centered Design (UCD)

Lo User Centered Design (UCD) è un modo per progettare e costruire siti o applicazioni tenendo conto del punto di vista e delle esigenze dell’utente. Lo UCD è un processo composto di più attività. Si basa sull’iterazione di diversi strumenti di analisi od osservazione, progettazione e verifica. In italiano questo processo è noto anche come “Progettazione Centrata sull’Utente”.

Il processo è stato definito e descritto da diversi autori e persino da alcune norme ISO, come la 13407, Human-centered design process. Diverse fonti descrivono processi leggermente diversi, ma guidati dalla stessa filosofia: fondare il progetto sulle esigenze degli utenti.

La ISO 13407

Questa norma ISO stabilisce quattro attività principali per il processo di UCD:

  1. Specificare il contesto d’uso
  2. Specificare i requisiti
  3. Creare delle soluzioni progettuali
  4. Valutare il design

Solo quando le soluzioni progettuali rispecchiano i requisiti, allora il prodotto può essere rilasciato e pienamente realizzato.

Appare evidente l’importanza che viene data a ben due fasi di analisi prima della creazione effettiva di soluzioni progettuali. Il contesto d’uso è necessario per identificare quali persone useranno il prodotto, cosa ci faranno e in quali condizioni lo useranno.

I requisiti si concentrano a questo punto sia sui compiti che gli utenti dovranno portare a termine che sugli eventuali obiettivi di business.
Solo a questo punto il prodotto può iniziare a essere pensato e progettato, in forma di prospetto, schema, prototipo, fino ad un modello completo.

Ma il passo davvero fondamentale è l’ultimo, ovvero la verifica del prodotto, in particolare con utenti reali attraverso i test di usabilità, anche se non solo: interviste, questionari, analisi ispettive e secondo linee guida possono altresì essere utili.

Gli strumenti

Nelle diverse fasi del ciclo di progetto vengono portate avanti diverse attività con diversi strumenti.

Nella fase di analisi (1 e 2) tipicamente si compiono le seguenti attività:

  1. Incontri con gli stakeholder (portatori di interessi) per capire vincoli e aspettative
  2. Analizzare i prodotti esistenti
  3. Conduzione di osservazioni sul campo
  4. Conduzione di interviste con potenziali utenti
  5. Conduzione di workshop con potenziali utenti
  6. Questionari
  7. Creazione di profili di utente
  8. Creazione di elenchi di compiti
  9. Creazione di scenari
  10. Definizione di team multidisciplinari

Aggiungo che è bene fin dall’inizio creare dei modi agili per comunicare fra i diversi componenti dello staff, e non rigidi e immodificabili. In un lavoro di UCD non dovrebbero esistere membri del gruppo di lavoro che decidono indipendentemente dalle opinioni altrui.

Nella fase in cui si lavora alla creazione di soluzioni progettuali si usano i seguenti strumenti:

  1. Brainstorming, riunioni e discussioni libere
  2. Creazione di modelli e schemi di navigazione
  3. Creazione di bozzetti e schermate, anche carta e matita
  4. Conduzione di analisi e simulazioni cognitive sui bozzetti
  5. Creazione di prototipi a bassa o alta fedeltà

Si può notare che accanto ad attività più propriamente progettuali (che comprendono il disegno dell’interfaccia con vari strumenti) si inizia già a condurre delle valutazioni e delle analisi sulla base dei documenti predisposti nella prima fase (scenari, compiti)

La valutazione avviene prima e durante l’implementazione vera e propria del sistema, attraverso:

  1. Test con utenti
  2. Questionari
  3. Analisi euristiche e ispettive
  4. Simulazioni cognitive

Alla fine il prodotto viene corretto e implementato con:

  1. La modifica del sistema
  2. La realizzazione definitiva di Html, css, grafica e programmazione

La fase di valutazione idealmente non finisce qui, perché si possono mettere a punto fasi di monitoraggio del sito o del software, grazie a:

  1. Meccanismi di segnalazione di problemi
  2. Questionari
  3. Studi sul campo
  4. Ulteriori test di usabilità per controllare gli obiettivi.

In definitiva, lo UCD è sia una filosofia che un processo che adottano una serie variabile e sufficientemente flessibile di strumenti.

Giova ricordare che tutti i prodotti vengono realizzati secondo un qualche processo. Questo può essere casuale o molto formalizzato. Attività di UCD possono essere inserite sia nell’uno che nell’altro caso, ma molto spesso non lo sono.

Perché lo UCD è raro?

Perché in Italia, ma anche in buona parte del mondo, i processi aziendali non vengono orientati alle esigenze dell’utente, con attività specifiche come quelle elencate qui sopra, anziché solo a parole? Per almeno 2 ragioni:

  1. Perché lo UCD è una filosofia relativamente giovane e poco insegnata. Non è il modo di gestire tradizionalmente il processo di realizzazione di software e di siti. Non è il modo in cui funzionano le software house in Italia, ed è un metodo che capi-progetto e manager non sanno bene come gestire
  2. Perché viene visto come un costo. Al contrario, vi sono stime che indicano che i processi UCD beneficiano di una rapida focalizzazione sui requisiti e le soluzioni giuste, evitano allungamenti di tempi legati a imposizioni o discussioni improduttive, e portano ad un prodotto soddisfacente in un tempo minore (Landauer, 19961)

Inserire lo UCD nel processo di progettazione richiede un cambio di mentalità e di procedure nelle aziende, che le renda più flessibili. Questo è abbastanza difficile in aziende grosse, perché, proprio come McDonald ha bisogno di standardizzare le procedure per produrre panini di identica qualità media, le grandi aziende hanno bisogno di standardizzare molto i processi per produrre software e siti di qualità standard qualunque sia la formazione e il grado di competenza dei dipendenti.

Tuttavia adottare l’UCD aiuta anche le aziende grosse a evolversi e a mettere in discussione le proprie rigidità.

Formazione

E’ urgente inserire lo UCD nelle scuole e nei corsi di webdesign. Negli anni 90 partecipai a corsi che non menzionavano in alcun modo queste attività. Negli anni 2000 ho insegnato in vari corsi che menzionavano tutt’al più l’usabilità. Lo UCD è più dell’usabilità: è l’applicazione di una filosofia tutta centrata e rivolta a identificare i bisogni dell’utente, nel rispetto di quelli di business.

Si fonda sulla credenza che sia possibile identificare i bisogni e i difetti di un prodotto attraverso l’analisi e il test. E che le evoluzioni siano misurabili. Richiede un cambio di mentalità verso la trasparenza e la chiarezza: le attività di test condotte durante il processo testimoniano l’evoluzione del prodotto e possono essere usate per vincere le resistenze di alcuni decisori.

Diversi autori hanno fatto evolvere il bagaglio di strumenti utilizzabile dentro procedure di UCD. Fra questi ricordiamo Alan Cooper, che ha ridefinito e migliorato il concetto di scenario e di personaggi (personae o personas).

UCD e accessibilità

La legge italiana sull’accessibilità cita una metodologia progettuale durante la quale dovrebbero essere effettuate alcune valutazioni che dovrebbero portare alla cosiddetta valutazione soggettiva. La metodologia indicata, identificata da un gruppo di lavoro diretto da Sebastiano Bagnara, uno dei pionieri dell’ergonomia in Italia, è né più né meno che un’applicazione dello UCD.
Questo sarebbe il modo giusto di progettare siti non solo tecnicamente accessibili, ma adeguati ai bisogni informativi e d’uso degli utenti, anche disabili. Anche all’estero si inizia a capire che l’accessibilità può esistere solo all’interno di una procedura di UCD.

Purtroppo, nonostante le iniziali speranze, questa legge ha marginalizzato questa procedura, rendendola non obbligatoria. Non solo: un recente chiarimento del CNIPA ha specificato che la valutazione soggettiva addirittura non deve essere fatta per i siti pubblici, con argomenti di difficile comprensione. Non ha speso una parola per sostenere l’applicazione di procedure di UCD nella progettazione di siti pubblici, sprecando così l’occasione di un salto storico nella mentalità progettuale dei siti pubblici.

Noi non perdiamo la speranza e sosteniamo che quella indicata nella metodologia sia la giusta procedura di progettazione dei siti, e auspichiamo che successive modifiche della legge, o successivi e più ponderati chiarimenti del Cnipa restituiscano a questa procedura la centralità necessaria.

Modi per orientare la vostra azienda allo UCD

E’ essenziale formare l’azienda alle procedure di UCD. Queste attività devono essere condivise non solo dagli esecutori (grafici, progettisti, programmatori), ma dai vertici dell’azienda, senza il contributo dei quali agli esecutori arriveranno sempre indicazioni contraddittorie. Per questa ragione le attività che hanno dimostrato di funzionare nel cambiare l’attitudine di un’azienda verso l’UCD sono le seguenti:

  1. Incontri e workshop sul design centrato sull’utente con i diversi stakeholder: manager, dipendenti, eventuali politici di riferimento
  2. Formazione specifica su specifici strumenti di UCD
  3. Richiami periodici di verifica e risoluzione dei problemi

Potere contattarci per avere ulteriori informazioni circa queste attività. Ed è bello notare che anche altre realtà in Italia stanno lavorando per sostenere l’UCD: è il segno che qualcosa si sta muovendo e che tutti assieme possiamo raggiungere l’obiettivo di avere un web moderno, progettato attorno alle esigenze delle persone che lo useranno e non dei progettisti.

Altre risorse:

1 Landauer, Thomas K. “The Trouble with Computers”, MIT Press, Cambridge, 1996 ^

I decaloghi dell’usabilità

Dopo aver svolto per anni ricerche di usabilità, diversi autori
hanno notato una notevole concordanza e un certo grado di ripetizione
nelle difficoltà
che incontravano gli utenti alle prese con
le interfacce dei siti, così come negli errori più comuni
commessi dai progettisti.

Poiché, ricordiamolo, l’usabilità è soprattutto
una pratica osservativa
(si basa cioè sull’osservazione diretta
dell’utente alle prese con il sito: solo questo garantisce veramente dei
risultati), sarebbe bene in ogni progetto procedere all’osservazione diretta
dell’interazione utente/interfaccia. Tuttavia: se gli errori si ripetono,
perché sprecare questo tipo di conoscenza?

E’ così che nascono le linee guida, i principi euristici, i decaloghi
su cosa fare e cosa non fare sul web.

Pur con le dovute cautele legate ai rischi di semplificazione e generalizzazione,
questi principi possono fornire un’utile e concreta base di riferimento
per chi si avvicina ai temi dell’usabilità. Proponiamo perciò
uno sguardo su questo argomento, e cerchiamo di capirne di più.

I principi di Nielsen

Non possiamo che iniziare da colui che più di ogni altro lega
il suo nome alla web-usability, il controverso guru da 20.000 dollari
al giorno (probabilmente aggiornati al più recente tasso d’inflazione),
l’ingegner Jakob Nielsen.

Nel suo sito, fra varie regole, Nielsen espone i principi euristici che
ha ricavato tramite analisi fattoriale di 249 errori comuni emersi in
varie ricerche precedenti. I fattori emersi sono 10, e Nielsen li espone
sul suo sito. Purtroppo per noi, Nielsen copre con un rigido copyright
il suo decalogo, anche per quanto riguarda le sue traduzioni, così
non vi resta che andare
a vedervelo sul suo sito
o leggerlo su qualche libro che ha ottenuto
l’autorizzazione. Tuttavia possiamo fare un breve sunto, e notare come
questi 10 principi si riferiscano in buona parte a 3 grandi aree di
problematicità:

  1. Orientamento e Navigazione: Rendere cioè disponibili
    e comprensibili tutti quegli strumenti che consentono all’utente di
    capire immediatamente dove si trova, da dove è venuto e dove
    può andare all’interno del sito web.
    E’ necessario presentare in maniera chiara e con nomi comprensibili
    le sezioni del sito, l’indicazione del percorso delle pagine interne,
    usando nomi significativi ed evitando di usare metafore poco chiare
    per l’utente. Bisognerebbe inoltre strutturare l’informazione seguendo
    il tipo di conoscenza dell’utente, più che il proprio, e assegnare
    la massima libertà di esplorazione e movimento all’utente, con
    chiare indicazioni di come tornare indietro e alla pagina principale.
  2. Prevenzione e gestione di errori, senza allarmismi e con linguaggio
    comune. Gli errori dovrebbero prima di tutto essere prevenuti, ci dice
    Nielsen, ma se ciò non fosse possibile, sarebbe necessario offrire
    all’utente la possibilità di tornare sempre indietro, e dovremmo
    sempre spiegare cosa sta succedendo, con un linguaggio semplice e chiaro,
    evitando i messaggi tecnici del server. Ciò diventa particolarmente
    cruciale in caso di link mancanti, di inserimento di dati nei form,
    di procedure d’acquisto e di registrazione a servizi online, e coinvolge
    in prima istanza lo staff tecnico che si occupa del sito, ma anche il
    progettista: le gestioni degli errori vanno comunicate con un linguaggio
    il più possibile vicino all’utente finale.
  3. Coerenza interna, aderenza agli standard e ai vincoli del web.
    Il che significa soprattutto definire uno stile omogenero per l’intero
    sito, non disorientare il lettore con cambi di carattere tipografico,
    dimensioni, colori e layout senza un motivo che sia prima di tutto semantico.
    Come ribadisce anche Sofia Postai nel suo libro,
    i cambiamenti di forma dovrebbero sempre corrispondere a cambiamenti
    logici, di contenuto.
    Per quanto riguarda l’aderenza agli standard, io non mi soffermerei
    troppo sul colore del link, quanto sul fatto che effettivamente si capisca
    che quello è un link e una barra dei menu.
    I vincoli sono soprattutto quelli legati alla dimensione e al formato
    della grafica e delle pagine html, della loro compatibilità all’indietro
    e dalla possibilità di essere fruite senza grossi problemi dal
    maggior numero possibile di dispositivi.

La cattiva fama di Nielsen presso molti web designer, però, è
dovuta principalmente al fatto che accanto a questi principi si lasci
di tanto in tanto andare ad affermazioni decisive e totalizzanti, quali
‘Non usare i frame’, ‘Non usare Flash!’, ‘I link devono essere blu e sottolineati’.
Come vedremo anche in seguito, affermazioni del genere andrebbero sempre
limitate ad uno specifico contesto d’uso e a precisi obiettivi del sito,
e non generalizzate a regola assoluta.

L’approccio di Tognazzini.

E’ interessante operare un confronto con i consigli di un altro autorevole
personaggio, Bruce Tognazzini, che sul
suo www.Asktog.com espone sedici principi
. Molto più tecnici
e articolati, ma anche talvolta oscuri, i principi di Tognazzini sono
utili soprattutto per un’utenza un po’ più esperta, e riguardano
argomenti di livello più astratto.
E’ bene sottolineare che, rispetto ai principi di Nielsen, che pure considerano
il problema, quelli di Tognazzini sembrano porre particolare accento sull’aspetto
della visibilità degli elementi dell’interfaccia.

Attenzione alle scelte cromatiche, alla disposizione visiva degli elementi,
all’esplorabilità dell’interfaccia, alla leggibilità e alla
visibilità stessa degli elementi di navigazione sono tutti consigli
che puntano a questo: niente deve essere dato troppo per scontato, non
è il caso di instaurare indovinelli con elementi di navigazione
non ovvi.
L’interfaccia viene in sostanza considerata per quello che è: non
un’opera d’arte, ma soprattutto uno strumento che deve "farsi usare",
consentire una certa maneggevolezza da parte dell’utente.

La funzione dell’interfaccia è in qualche modo quella di "sparire"
dall’attenzione cosciente del visitatore, e per far questo, essa deve
paradossalmente "comparire", rendersi visibile ed evidente,
colmare tutte le lacune e "proporsi" per l’uso. Un ottimo approccio
a questo tipo di uso funzionale e non-estetico dell’interfaccia si può
trovare in un
brillante articolo di Umberto Santucci
, che dovrebbe contribuire a
chiarire le idee anche riguardo alla presunta uniformità delle
interfacce usabili…

Quanti approcci?

Su ogni sito che si occupi di usabilità troveremo però
un decalogo leggermente diverso. Vi sottopongo così, a mo’ di esempio,
altri 10 ‘usability tips’, suggerimenti, se non proprio principi,
che provengono da un altro sito, system-concepts.com.
La traduzione è mia, e vi invito al confronto con i suggerimenti
di Nielsen e Tognazzini. Secondo System-concepts, dunque, dovreste:

  1. Evidenziare in home page la ‘value proposition’, ovvero l’affermazione
    che riassuma chiaramente lo scopo del sito, una specie di slogan sintetico
    e significativo.
  2. Inserire contenuto attraente.
  3. Rendere i link visibili e riconoscibili.
  4. Ridurre il numero delle voci della barra di navigazione.
  5. Usare una terminologia significativa e coerente per gli item di navigazione
    e per i link ipertestuali
  6. Correggere attentamente gli errori tipografici
  7. Includere dello spazio bianco nel layout di pagina.
  8. Parlare con i clienti per capire quali funzionalità sono davvero
    necessarie
  9. Accertarsi che il sito sia visibile da chi ha problemi visivi.
  10. …Condurre un test di usabilità!

Questo decalogo evidenzia come i consigli variano a volte anche enormemente
da sito a sito e da consulente a consulente. Systemconcept sembra preoccuparsi
molto di più di strategia di comunicazione, con l’attenzione spostata
verso la ‘value proposition’, i contenuti attraenti, il consiglio di parlare
con i clienti… E tuttavia tutti questi argomenti sono perfettamente
pertinenti in un discorso sull’usabilità.

Diventa allora chiaro, davanti alla difformità degli approcci,
che questi tipi di decaloghi vanno soprattutto interpretati e capiti,
collocati nel loro giusto contesto, adattati ai propri obiettivi.

Non tutte le regole si adattano a tutte le situazioni.

I limiti delle regole

Il ricorso a regole usate a mo’ di slogan, buone per tutte le circostanze
è uno dei motivi per i quali molti web designer si richiudono in
posizione difensiva non appena sentono nominare la parola usabilità.
Oggi, prima ancora che una vera cultura dell’usabilità decolli
in Italia, bisogna guardarsi da questo rischio: ridurre l’usabilità
ad una serie di ‘non far questo’ e ‘non far quello’.
In conclusione di questa breve panoramica di regole e principi, teniamo
a ricordare che, sul web, l’usabilità è un metodo di
sostegno alla progettazione e al design,
e va commisurata ai diversi
obiettivi del sito.
Non esiste un’usabilità a priori, insita in ogni sito.

Come abbiamo fin dall’inizio sottolineato,
l’usabilità riguarda infatti l’interazione d’uso fra un particolare
utente e l’artefatto cognitivo,
e non è una proprietà
astratta, misurabile automaticamente. Le regole sono semplificazioni buone
per farsi ascoltare in un momento iniziale, quando l’attenzione alle esigenze
dell’utente è ancora scarsa. Ma devono subito essere sostituite
da un metodo: questo metodo è un approccio al design più
ampio, che coinvolga l’utente nel processo di progettazione, che incoraggi
i web designer a sviluppare soluzioni ad hoc
sul tipo di progetto
e di pubblico precisi.

L’usabilità deve essere certo grata alle regole (sono quelle che
evitano gli errori più marchiani) ma deve essere capace di prescinderne,
in favore di approcci particolari, legati agli obiettivi dei singoli siti
piuttosto che ad un’uniformità che non giova certo alla comunicazione
complessiva.

Tuttavia vi è in questo richiamo l’ombra di un doppio rischio:

  • da una parte che la banalizzazione e l’errato utilizzo delle regole
    siano condotti da pseudo-esperti che non riescono a capirne la portata
    e ad adattarle alle esigenze del singolo progetto; che manchino cioé
    della necessaria flessibilità e intelligenza operativa.
  • dall’altra che l’appello al superamento della semplificazione costituita
    dalle regole si trasformi in un‘autorizzazione a farsi l’usabilità
    in casa,
    su misura e per giustificare a posteriori le proprie
    scelte
    piuttosto che sulla base degli effettivi interessi dell’utente.

Contro questi rischi si gioca oggi una sfida di serietà e credibilità
per chi si occupa di usabilità e design.

La sfida dell’accessibilità

E’ dunque giunto il momento anche in Italia di confrontarsi con il
delicato tema dell’accessibilità dei siti web. Come già
accaduto negli Stati Uniti, anche in Italia il Governo, per voce del
Ministero della Funzione Pubblica, ha emanato la scorsa settimana una
direttiva
per la costruzione dei siti web delle amministrazioni pubbliche.

E’ soltanto una direttiva e non una legge, ma c’è da scommettere
che se verrà recepita creerà non poco sconquasso. Il documento
invita tutte le pubbliche amministrazioni a considerare il ruolo di
Internet come strumento comunicativo sia interno sia con l’esterno,
e ne sottolinea il valore strumentale di "tecnologia distribuita".

Alla luce di queste considerazioni, esorta chi realizza i siti delle
PA a rispettare le norme di:

  • A. Usabilità, intesa come buona organizzazione dei
    contenuti e della navigazione.
  • B. Accessibilità, ovvero la possibilità di
    rendere accessibile i contenuti dei siti ad utenti disabili o con
    dotazioni tecnologiche ristrette.

Se l’usabilità è genericamente un tema già
da tempo all’attenzione di chi realizza siti
(o almeno dei più
seri fra essi), le raccomandazioni sull’accessibilità tengono
in questo caso conto dei documenti conclusivi della Conferenza Ministeriale
di Lisbona dell’Unione Europea del 20 Marzo 2000 e della conferenza
Ministeriale di Feira del 19 e 20 giugno 2000, nonché, naturalmente,
delle tecniche
per rendere i contenuti web accessibili stabilite dal WAI
(Web Accessibility
Initiative), gruppo di lavoro del W3C.

Il documento ministeriale riassume le linee guida in 10 punti, recependo
di fatto in maniera sintetica le 14 linee guida del WAI, e invita le
Pubbliche Amministrazioni e chi collabora alla realizzazione dei siti
(e dunque le agenzie esterne) a mettersi in regola entro i prossimi
6 mesi!!

Diciamo subito che la direttiva ha delle carenze evidenti. Non solo
sintetizza troppo le norme WAI, ma ne tralascia in pratica i due aspetti
migliori:

1. L’insieme di linee
guida di ausilio ai progettisti:
ovvero, in poche parole, un’appendice
indispensabile per spiegare a chi realizza i siti come fare per rispettare
in pratica i criteri di accessibilità. In assenza di queste linee
guida, è prevedibile che nasceranno numerose e difformi interpretazioni
dei principi. Naturalmente, è possibile fare riferimento ai documenti
del WAI, ma questo riferimento non è previsto esplicitamente.
2. L’articolazione delle norme in tre livelli di priorità,
di importanza decrescente.

Il documento del WAI, infatti, in maniera molto lungimirante aveva
identificato tre livelli di gravità nei problemi relativi all’accessibilità,
e di conseguenza tre diversi livelli di adesione alle norme.

  1. Priorità 1. Norme che devono essere rispettate da
    tutti, pena l’impossibilità per alcuni gruppi di utenti di
    accedere alle informazioni (livello A di adesione)
  2. Priorità 2. Norme che dovrebbero essere soddisfatte,
    pena una difficoltà di accesso ad alcune informazioni da parte
    di uno o più gruppi di utenti (livello AA)
  3. Priorità 3. Norme che potrebbero essere soddisfatte,
    con l’obiettivo di rendere ancora migliore l’accesso a uno o più
    gruppi di utenti (livello AAA).

Lo scopo appare evidente, ed è per una volta evidenziato
in modo molto pragmatico e tuttavia non riduttivo dallo stesso Jakob
Nielsen:
poiché adeguare il sito al rispetto completo delle
norme è molto complicato, soprattutto per i siti esistenti di
una certa entità, la definizione delle priorità consente
almeno di iniziare a pensare al primo livello di compatibilità.

Il consiglio di Nielsen è quello di rendere compatibile subito
al livello A almeno l’home page e le pagine nuove.

In seguito, di avvicinare le pagine più frequentate allo stesso
livello, e iniziare a lavorare per la compatibilità per il livello
medio (AA), e così via.

Un approccio graduale, insomma, che almeno ha il merito di togliere
agli sviluppatori l’alibi del "troppo lavoro",
dell’impossibilità
pratica ad affrontare il problema.
Invece la questione è prima di tutto etica: le linee guida
del WAI possono effettivamente garantire la non esclusione dal mondo
internet di varie categorie di utenti disabili.

Esse si basano su due principi:

  1. Garantire una trasformazione elegante delle pagine.
    Attraverso l’uso di tag ALT e LONGDESC e di descrizioni uditive è
    possibile almeno rendere accessibili versioni alternative di immagini
    e animazioni. E’ inspensabile per garantire questo punto una buona
    validazione del codice secondo direttive che purtroppo, in pratica,
    non tutti i browser supportano in maniera conforme (le accuse degli
    sviluppatori sembrano indirizzarsi insistentemente verso Netscape
    4.7, mentre la versione 6 è decisamente migliore, ma anche
    per gli altri browser c’è ancora della strada da fare).
  2. Rendere il contenuto navigabile e fruibile.

Le 14 linee guida articolate sui tre livelli di priorità servono
proprio a questo. La conformità della pagina può essere
controllata gratuitamente con il validatore presente su www.cast.org/bobby,
il quale scorre il codice HTML alla ricerca di problemi di utilizzo
del codice.

E’ bene però precisare che l’accessibilità non può
essere semplicemente verificata automaticamente.
Infatti, uno dei
due principi cui fa riferimento, precisamente "rendere il contenuto
navigabile e fruibile", non può certo essere stabilito da
un programma. E, guarda caso, assomiglia molto alla sintetica descrizione
di un concetto che conosciamo già, ovvero… l’usabilità!
Alla luce di queste considerazioni, è possibile anche definire
il rapporto che intercorre fra usabilità e accessibilità,
almeno per come viene definita dal WAI. Si tratta di un rapporto di
inclusione: l’accessibilità, per essere tale, deve includere
ANCHE l’usabilità,
e, oltre a questo, implementare alcune
norme di buona codifica HTML.

Non è dunque vero, come si sente alle volte, che l’accessibilità
è uno dei prerequisiti dell’usabilità. E’ semmai vero
il contrario (l’usabilità è un prerequisito dell’accessibilità),
e ne consegue che rendere un sito accessibile è decisamente
più difficile che renderlo usabile.
E comunque, per rendere
un sito accessibile, diventa indispensabile condurre dei test di usabilità.

L’usabilità, dunque, si dimostra ancora una volta fondamentale
per un accesso più democratico al web, contrariamente
a quanto sostengono certe accuse di conservatorismo che periodicamente
si vede affibiare da chi, forse, ha altre preocccupazioni e non la conosce
poi troppo bene.

Ma quanto difficile è rendere un sito accessibile? Quante
rinuncie si debbono fare? In realtà, dipende. Dipende dal livello
cui ci si vuole uniformare. Seguendo i consigli di Nielsen, per esempio,
non ci sono poi troppe rinuncie da fare per rendere una pagina conforme
al primo, più serio livello di priorità. La home
page di Usabile.it
, per esempio, che non è stato progettato
per l’accessibilità, è ora perfettamente aderente al Livello
A delle norme. E l’apparenza è assolutamente identica a prima.
Non vi sono dunque rinunce così pesanti da fare: qualunque
pagina compatibile con un browser di terza generazione può facilmente
essere resa accessibile.
Le rinunce più dolorose, probabilmente,
riguardano l’interattività client-side (essenzialmente tramite
l’uso di script Javascript: viene richiesto il tag <NO SCRIPT>,
che ovviamente può non bastare per fornire alternative a contenuti
dinamici). Ma si tratta di funzionalità che possono spesso essere
tranquillamente sostituite con una buona programmazione server-side
e con l’uso di programmi CGI.
Per farsi una prima idea delle difficoltà che si incontrano possono
esser utili i quick
tips (consigli rapidi) del WAI.

Per concludere, va notato che negli Stati Uniti l’accessibilità
è considerata un vero e proprio diritto civile
(come di fatto
è) dalle associazioni dei disabili, che dopo varie battaglie
hanno ottenuto che, con la normativa denominata sezione
508
, tutti i siti e le intranet della governative siano conformi
alle norme sull’accessibilità. Questo ovviamente è anche
un vantaggio per il governo, che ha tutto l’interesse che un dipendente
disabile riesca ad utilizzare proficuamente il sistema informativo interno
ed esterno durante il lavoro. La norma dà tempo agli sviluppatori
fino al 21 giugno 2001 affinché si adeguino.
Sebbene questa regola non valga per il settore privato, tutte le agenzie
che riceveranno incarichi dalle pubbliche amministrazioni (ricerche,
consulenze), se richieste di mettere a disposizione del pubblico i dati
risultanti dall’incarico, lo dovranno fare in parti del proprio sito
realizzate seguendo la stessa norma.
Una lista di chiarimenti su questo argomento (in lingua inglese) è
disponibile
on-line seguendo questo link
.

Progettare l’home page

Sebbene le home page possano variare considerevolmente a seconda del tipo di sito, progettarle e' sempre un compito diverso dalla progettazione di pagine interne. Le differenze sono date dalle particolari funzionalita' di queste pagine. In questo articolo ci soffermeremo su alcune considerazioni che è necessario tener presente, dividendole per comodità in due categorie:

  1. funzionalità
    ovvero quali compiti assolvono le home page
  2. vincoli
    ossia i limiti che può essere necessario considerare.

Funzionalità

La prima cosa da sottolineare è probabilmente ovvia, ma è meglio non darlo per scontato: la home page è probabilmente la via di accesso principale ad un sito (anche se certo non l'unica possibile). Si troverà così a ricevere due grandi categorie di visitatori:

  1. Utenti che arrivano sul sito per la prima volta
  2. Utenti che conoscono già il sito e vi ritornano.

Gli utenti che arrivano per la prima volta si pongono per lo più 2 tipi di domande:

  • Dove sono? Cos'è questo sito e cosa offre? Ho qualche motivo per visitarlo (cioé mi propone qualcosa di interessante)?
  • Dove posso andare da qui? Come mi muoverò alla ricerca di ciò che sembra promettente o come troverò ciò che stavo cercando?

Fornire identità e orientamento sono dunque le due funzionalità principali di un'home page.

Gli utenti che ritornano sul sito lo conoscono già. E' quindi è probabile che cercheranno soprattutto:

  • News: informazioni sui più recenti aggiornamenti, sulle modifiche e sulle offerte del momento.
  • Scorciatoie e utilities: metodi meno standardizzati e più veolci per raggiungere le informazioni gradite, o accessi per utenti registrati.

Quelli che seguono sono alcuni dei principali modi per assolvere a queste funzionalità in un'home page. Non sono probabilmente gli unici, ma sono quelli che hanno dimostrato nel tempo di possedere una certa efficacia, assumendo il ruolo di convenzioni. I motivi sono tutt'altro che arbitrari, come vedremo. Di conseguenza, qualora si intendesse violare queste convenzioni, è bene farlo a ragion veduta.

1. Fornire identità

…ovvero rispondere alle domande che l'utente si pone: cosa fa questo sito? chi è l'azienda?
Un modo standard per assolvere a questa funzione è naturalmente quello di inserire il logo in bella evidenza nell'home page. Che l'azienda sia famosa o perfettamente sconosciuta, il logo serve a identificare il luogo in cui ci si trova.
Il logo andrebbe posto in alto a sinistra per un motivo molto semplice: è il punto gerarchicamente più importante della pagina. Spostarlo da lì significa rischiare di inserire qualcosa al di "sopra", e se qualcosa sta sopra il logo nella gerarchia della pagina, si possono creare dubbi e confusione all'utente. Se siete certi che non si generano confusioni, allora, in virtù di un'impaginazione particolare, il logo può anche essere posto in qualche altro luogo rilevante della pagina. In ogni caso, non vi devono essere conflitti gerarchici con altre immagini o elementi. Don Norman sostiene che "fra gli oggetti e la loro localizzazione deve esistere una corrispondenza spaziale naturale: in altre parole deve esserci una ragione per collocare gli oggetti nel luogo in cui si trovano". Ogni volta che si dispongono gli oggetti (non soltanto il logo) sulla pagina bisognerebbe tener presenti queste affermazioni.

Inserire il logo non è però tutto: siete sicuri che la vostra pagina dica chiaramente cosa offre il sito? A chi si rivolge? Perché dovrebbe essere interessante? Non datelo per scontato. Spesso un semplice logo non è affatto sufficiente.
Uno dei sistemi utilizzati a questo scopo è quello di inserire negli immediati dintorni del logo un piccolo slogan, una frase esplicativa che introduca in maniera chiara e accattivante il servizio. E' importante però evitare gli slogan magniloquenti e vuoti: si deve soprattutto capire!

[Usabile.it ha scelto un'altra strada. Nella prima versione dell'home page abbiamo inserito nella colonna a destra una serie di risposte alle domande esplicite "di cosa si parla" e "a chi è rivolto il sito". Quest'ultima categoria permane nell'attuale versione, mentre il "di cosa si parla", dopo qualche mese è stato sostituito da un "abbiamo parlato di", seguito da una serie di link diretti ad alcuni articoli. In questo modo abbiamo anche fornito una scorciatoia a utenti abituali (che così non devono necessariamente passare per la pagina dell'indice per recuperare tutti i vecchi articoli), mantenendo il più possibile in evidenza il range di argomenti affrontati.

Non vi è una scelta ottima: avremmo potuto scrivere vicino al logo "argomenti dal mondo della web usability", o qualcosa di simile. Ma poiché al momento della pubblicazione del sito l'argomento era solo emergente, qualcuno avrebbe potuto non sapere cosa fosse la web usability. Fornire la chiara indicazione degli argomenti che avremmo affrontato è parsa la scelta migliore.

Tutto semplice? Anzi… alcuni utenti ci hanno segnalato un problema di… usabilità! La barra a destra è ormai convenzionalmente considerata barra di link, al pari delle barre a sinistra. Di conseguenza questi utenti tentavano di cliccare sugli argomenti, benché privi di sottolineatura e colorati in nero come del normale testo (evidentemente non tutti i link devono essere blu e sottolineati per essere percepiti come tali…). La somiglianza con barre simili di altri siti era per alcuni un segnale molto forte.

La soluzione (senza procedere ad un oneroso redesign…) è stata quella di attendere di avere qualche articolo in archivio e passare a fornire una scorciatoia agli articoli in luogo del "si parla di", avvicinando così la funzione della barra a destra alle aspettative degli utenti (in questa maniera si marca anche una differenza con la tabella sottostante, non linkata e contenente solo un'indicazione delle categorie di utenti cui ci rivolgiamo).]

La verità quindi è che l'intera pagina, nel suo insieme, deve presentare informazioni semplici ed efficaci sull'identità del sito. Ricordatevi di non dare per scontato che l'utente vi conosca o che sappia cosa offrite: l'home page deve indicarlo senza lasciare dubbi.

2. Orientamento e navigazione

L'home page deve rispondere anche alle domande: dove posso andare? cosa posso trovare? Come faccio per arrivarci? Questa funzionalità viene assolta generalmente in tre modi (che sono comunque molto più complicati di quanto non si possa esporre qui…):

  1. con la presenza di chiari menu di navigazione. I menu dovrebbero utilizzare etichette verbali che indichino il più esattamente possibile cosa si trova al di là del link. Non fidatevi di quelle che vi possono sembrare geniali metafore se prima non ne avrete valutato la comprensibilità. Allo stesso modo, l'uso di icone senza etichette verbali non è consigliabile, perché non vi è accordo sul significato della grossa maggioranza delle icone… Ricordate anche che gli strumenti di navigazione principale sono al secondo posto nella gerarchia d'importanza degli elementi di una pagina. La scelta di collocarli in una barra orizzontale sotto al logo o nella colonna a sinistra riflette questa gerarchia. I cambiamenti sono possibili, ma tenete conto del messaggio complessivo che la vostra impaginazione offre.
  2. con directory che raccolgano le sezioni principali del sito. Con un solo click potete consentire all'utente di entrare in una sezione che gli interessa particolarmente, dove potrà effettuare scelte più precise.
  3. attraverso funzioni di ricerca testuali. Tipicamente, la casellina di ricerca interna al sito, utile soprattutto se il vostro sito ha molte pagine.

3. Che c'è di nuovo? News e offerte.

In molti casi (non sempre) l'home page è anche la pagina che presenta le novità. Nel corpo della pagina, gerarchicamente in posizione inferiore rispetto a logo e navigazione, prevedete uno spazio dove presentare le novità del giorno, della settimana o del mese… E, chi lo sa, potreste aver bisogno di proporre servizi speciali, offerte, partnership. Prevedete uno spazio per tutto questo fin dal principio. Ricordate di inserire una data accanto alle novità, perché non sempre chi arriva sul vostro sito sa con quale frequenza lo aggiornate, ed è spiacevole approfondire una novità per scoprire poi, in marzo, che è riferita alle feste natalizie (naturalmente è consigliabile aggiornare il sito più frequentemente di ogni tre mesi…).

4. Scorciatoie o altre utilities per utenti abituali

Abbiamo già discusso di una possibile scorciatoia parlando dell'home page di usabile.it. Le scorciatoie possono avere diverse forme, ma si tratta per lo più di link ridondanti o di accessi diretti a zone del sito. Tra queste ultime vi sono anche le funzionalità di accesso per utenti registrati. Se il sito le prevede, è bene inserire fin dall'home page il form per l'inserimento di password e nome utente. Alcuni siti invece utilizzano in home page un link ad una pagina di ingresso vera e propria. Ma perché aggiungere un link in più? Questo genere di funzionalità non occupa molto spazio. Se la inserite direttamente nella home page, gli utenti registrati ve ne saranno grati.

 

Vincoli

Progettare un' home page non significa soltanto pensare a funzionalità e facilitazioni per gli utenti. Vi sono spesso delle altre scelte da compiere, alcune delle quali sono a volte dei vincoli in sé, come i banner. In altri casi si tratta di scelte di fondo, per effettuare le quali bisogna avere coscienza di alcuni vincoli cognitivi (per evitare di sovraccaricare l'attenzione dell'utente) e tecnologici (come i vincoli di peso in kilobyte dei documenti, collegati alla scarsa ampiezza della banda passante).

I banner

Sebbene la percentuale di click dei banner sia costantemente in calo dal momento della nascita del web a oggi, e alcune ricerche abbiano dimostrato che gli utenti hanno ormai imparato a ignorarli, per molti siti i banner sono ancora una delle fonti principali di guadagno. Vi sono tre accortezze da tenere presenti a proposito dei banner in home page:

  1. Al momento del design prevedete già lo spazio per i banner, evitando che appaiano posticci e mal integrati nella pagina.
  2. Non inseriteli MAI prima del logo. Dà alla pagina un 'impressione di estrema commercialità, nel senso spregiativo del termine. Sembra, insomma, che vi importi molto di più il banner del vostro sito. Il che forse sarà anche vero, ma non è una buona idea renderlo così esplicito…
  3. Evitate gli eccessi. Un banner è più che sufficiente. Se ne dovete proprio inserire degli altri, è opportuno che si differenzino. Spesso i banner di piccole dimensioni sono comunque efficaci, e vengono da alcuni siti inseriti in una delle colonne ai lati della pagina. Non sono un esperto di pubblicità, e non so quanto rendano. Certo l'effetto sull'utente di una pagina che sembra un albero di natale lampeggiante non è dei migliori. Se potete, prevedete una o due postazioni fisse per i banner, e ruotate i diversi sponsor (anche se questi il più delle volte preferiscono la presenza costante). In questo modo l'utente sarà attratto dal non trovare sempre lo stesso banner in quella posizione. Valutate comunque altre forme di sponsorizzazione, come le partnership o gli annunci testuali.

In generale, comunque, è bene ricordare che le animazioni (tutte, non solo i banner) sono dei distrattori! Usatele con parsimonia, si tratti di Gif animate o di moduli in Flash, perché disturbano l'attenzione dell'utente invece di favorirla e interagiscono negativamente con i contenuti testuali.

Intro animate e "pagine copertina"

Le intro animate sono moduli, solitamente in Flash, di animazione vettoriale multimediale, usate per introdurre l'ingresso al sito vero e proprio. A volte è prevista la possibilità di saltarle, a volte no (e in tal caso al web designer che ha omesso questa possibilità fischieranno le orecchie… soprattutto se per l'utente non è la prima visita al sito).

Le pagine copertina sono quelle costituite da un'unica grande immagine, che una volta caricata ha l'unica funzione di essere un link alla home-page propriamente detta.

Hanno entrambe lo stesso problema: sono lente da caricare e allontanano la pagina vera e propria. Perché utilizzarle, allora? Per motivi di immagine, si dice alle volte. Per dare un'esperienza estetica o multimediale. Siete sicuri che l'utente medio (che non ha alcun interesse a intraprendere il mestiere di web designer) gradisca questi rallentamenti privi di funzionalità?
Le stesse norme di usabilità della Macromedia sconsigliano vivamente l'utilizzo delle intro animate in Flash. Le intro possono essere linkate in home page, così se qualcuno ne è appassionato le potrà scaricare come libera scelta, invece di imporle anche a chi non ne vuole sapere (o non ha il plug-in e non intende scaricarselo).
Per le "pagine copertina" invece, nessuna speranza: vanno abolite, ora e definitivamente. Se volete mostrare la vostra arte, progettate una sezione portfolio, e sfogatevi là…

Problemi di peso

Le home page sono pagine che si devono scaricare velocemente. Se possibile (ma spesso non lo è…) più in fretta delle pagine interne, dato che devono 'agganciare' l'attenzione dell'utente. Generalmente è difficile che siano più veloci, perché le pagine interne si possono a volte avvantaggiare dal mancato scaricamento di alcuni file grafici in comune con la home, che in tal caso sono già presenti nella cache memory del browser. A maggior ragione, mantenete il peso complessivo del codice html più i file grafici associati entro i 50Kbyte (se possibile ancor meno), limite considerato massimo per garantire un tempo di scaricamento ragionevole.

Queste considerazioni sono delle linee guida, e come tali vanno usate senza eccessiva rigidità. Il loro scopo è quello di porre l'attenzione sui motivi che stanno alla base delle scelte che si fanno.
E' bene ricordare che ogni sito ha i suoi obiettivi: definiteli chiaramente. Se, in base agli obiettivi, ritenete di avere una ragione valida per violare queste linee-guida, be', allora fatelo. Ma valutate attentamente i pro e i contro: accertatevi (con dei test di usabilità, per esempio) che anche i vostri utenti gradiscano queste modifiche!

Scrivere per il web

Leggere sul monitor è più faticoso che su carta. La risoluzione
è più bassa e la lettura più lenta del 25%. Come
conseguenza gli utenti del web non leggono, ma scorrono il testo
alla ricerca di frasi o parole che attirino la loro attenzione.

Scrivere per il web diventa così un mestiere in parte diverso
dallo scrivere su carta
, anche se è basato sulle stesse qualità
di fondo. Non è infatti possibile prescindere da una buona sintassi
e una corretta grammatica!
Sul web vi sono però ulteriori criteri
di scrittura e composizione che vanno seguiti per facilitare la lettura,
così come vi sono errori da non fare assolutamente.
Riassumeremo le considerazioni sviluppandole in tre ambiti. Parleremo
prima di come disporre i contenuti, poi di quale stile utilizzare,
e infine ci occuperemo degli espedienti visivi che facilitano la
lettura su monitor.

Il contenuto.

Il web è il regno della concretezza e della concisione.
Questa potrebbe essere l’unica regola, ma lasciateci scendere un po’ più
nel dettaglio…

  1. Scrivete seguendo le quattro massime di Grice (uno studioso
    della comprensione dei testi):

    – scrivi la quantità di informazione necessaria: non
    di più, non di meno (massima della quantità);
    – scrivi ciò di cui hai prove (sii sincero, massima della
    qualità);
    – sii pertinente: dì quello che è rilevante e coerente con
    l’argomento (massima della relazione);
    – sii chiaro (massima del modo).

    Grice prevedeva anche le violazioni alle massime, ma non preoccupiamocene!…
    Sul web, meno violazioni si fanno, meglio è!

  2. Mettete i concetti più importanti in cima. Non scrivete cioè
    per arrivare a delle conclusioni attraverso un ragionamento, come insegnano
    a scuola, o come avviene nei romanzi, con il cosiddetto climax. Scrivete
    in maniera giornalistica
    , scoprendo le vostre carte fin da subito,
    con l’esposizione della conclusione o della notizia. I dettagli vanno
    aggiunti in seguito. Se la lettura viene troncata a metà, l’utente deve
    aver già incontrato i concetti principali. Un errore abbastanza
    frequente (l’ho fatto anch’io) è quello di instaurare una specie di
    gioco con il lettore, incuriosendolo, fornendo dati oscuri, in
    maniera da creare un aumento di interesse che lo spinga a leggere. Be’,
    non funziona. I lettori non vogliono perdere tempo in rete, e
    gradiscono i fatti, non i giochini, per i quali si rivolgono a siti
    specialistici. L’utente vuole sapere subito se troverà qualcosa che
    lo interessi.
    Se la prima frase è promettente, vorrà saperne di
    più. Tale modo di scrivere è talvolta definito a “piramide rovesciata”.
  3. Che le prime frasi siano le più importanti vale non solo per
    l’intero testo, ma anche per i singoli paragrafi. Poiché la gente
    non legge, ma scorre il testo, rendete possibile la comprensione anche
    solo attraverso le frasi principali poste in cima ai paragrafi o attraverso
    le frasi chiave, evidenziate.
  4. Dedicate un periodo ad un solo concetto. Quando avete esaurito
    quell’argomento e passate al successivo, cambiate periodo. Questo faciliterà
    visivamente, ma anche concettualmente, il processo di comprensione del
    lettore, già abbastanza ostacolato dalla difficoltà di lettura.
  5. Dominate il contenuto. Cambiate disposizione ai concetti, per
    cercare quella più efficace. Non abbiate timore, se il tempo non vi
    manca, di provare varie strade.

Lo stile:

  1. A causa soprattutto delle difficoltà nella lettura, il web
    vuole una scrittura pratica, concisa
    . E’ meglio evitare di essere
    troppo letterari, eleganti, involuti. Togliete tutte le parole superflue.
    Siate oggettivi, concisi e precisi: esprimete in maniera diretta
    i contenuti, senza perifrasi o espressioni vaghe. Via gli aggettivi
    non veramente utili. Evitare le frasi lunghe e i periodi con troppe
    coordinate e subordinate. Aboliti i gerghi, il marketese, il politichese,
    i termini incomprensibili. Argomentate il più possibile attraverso i
    fatti, tentate di separarli dalle opinioni, che pure è lecito
    esprimere.
  2. Siate divertenti, il che non significa essere umoristici. Lasciate
    perdere lo humor, i giochi di parole: da una parte eventuali utenti
    internazionali non lo capiranno, dall’altra distrarreste dal contenuto.
    ‘Siate divertenti’ significa ‘siate brillanti’, non rendete il
    vostro testo freddo e noioso. Questo non si insegna facilmente, anche
    se vi sono delle tecniche. Il ritmo sincopato, per esempio. Evitate
    frasi che abbiano tutte la stessa cadenza. Ad un periodo più lungo anteponete
    e posponete sequenze di frasi più brevi. Se vi viene in mente un commento
    su quanto state scrivendo, inseritelo pure: sembrerete più umani. L’importante
    è non esagerare.
    In una parola, dovreste divertirvi mentre scrivete,
    trasmettere un certo entusiasmo, ma al tempo stesso rimanere professionali.
    Facile, eh?
  3. Ci vuole buon senso: curate anche una certa scorrevolezza,
    non tagliate il testo con l’accetta solo per rispettare queste regole.
    Ma comunque non lasciatevi andare come fareste su carta. Le frasi brillanti,
    i periodi articolati sono solo fatica in più in un compito che è già
    faticoso di suo.

Espedienti visivi:

La lettura si fonda su due processi: il primo consiste nel riconoscimento
visivo
, il secondo nell’estrazione del significato. Il secondo
processo (l’estrazione del significato) viene ostacolato da una cattiva
percezione. Per migliorare la percezione visiva del vostro testo potete
usare i seguenti espedienti:

  1. Spezzate i periodi andando frequentemente a capo. Un unico
    blocco di testo viene visto come un ostacolo insormontabile.
  2. Evidenziate le parole chiave: per farlo è meglio utilizzare
    il grassetto, piuttosto che il corsivo come si usa su carta, perché
    il monitor, composto da pixel orizzontali e verticali, non rende bene
    i caratteri disposti in diagonale, come nel caso del corsivo. Potete
    anche usare un colore per evidenziare il testo, ma accertatevi che lo
    stiate effettivamente enfatizzando! Dovete usare un colore saturo e
    non troppo luminoso (se usate il fondo chiaro). Il colore che più risalta
    all’occhio è il rosso. Ma se lo usate (come in questo sito) per i link,
    evitate di usarlo per termini che non sono linkati: generereste confusione
    negli utenti. Alle volte anche lo stesso link, però, può servire ad
    evidenziare parti di testo. Usate comunque i link con parsimonia, e
    solo per informazioni secondarie e non determinanti per la comprensione
    del discorso, perché sono dei distrattori, dato che danno all’utente
    la tentazione di seguirli.
  3. Non utilizzate una colonna di testo troppo larga, perché gli
    occhi faticano a mantenersi su una riga lunga. Inoltre siamo abituati
    alle colonne di un giornale.
  4. Utilizzare dove possibile elenchi numerati o con puntatore,
    come questo. Le voci risultano chiaramente divise e spaziate. E’ meglio
    naturalmente mettere le voci più importanti in alto.
  5. Gli articoli non dovrebbero essere troppo lunghi. Assolutamente
    vietato spezzarli su più pagine, una scomodità inaudita. Nielsen consiglia
    semmai di dividere l’argomento in più articoli diversi.
  6. Infine, tutto questo sarà vano se non scegliete colori che vi assicurino
    un buon contrasto.
    Caratteri neri su sfondo bianco offrono il contrasto
    migliore. Il negativo, cioé bianco su nero, per alcuni è più gradito,
    per altri no. In ogni caso dà un tono cupo e vagamente tecnologico alla
    pagina. Valutate anche l’impatto emotivo, il calore, la sensazione che
    la pagina trasmette. Fate attenzione ai colori che scegliete: devono
    dare un buon contrasto anche per daltonici e discromatici. I disturbi
    nella percezione del colore sono più diffusi di quanto non si creda.
    Forse non lo sapete, ma conoscete certamente qualcuno che ha problemi
    di questo tipo. Ecco perché il nero su bianco rimane a mio avviso ancora
    la scelta migliore.
  7. Utilizzate un carattere tipografico standard. Oltre a essere
    facilmente riconosciuto, il che aiuta la lettura, eviterete di creare
    inconvenienti visivi a quegli utenti che non dispongono di una particolare
    font. I caratteri più diffusi sono: il times, usato molto in
    stampa, con le grazie che aiutano la lettura; l’arial e il verdana,
    senza grazie, più leggibili su monitor specialmente con caratteri di
    dimensioni piccole (soprattutto il Verdana); il courier, carattere
    con grazie monospaziato, che ricorda la macchina da scrivere.

A questi suggerimenti va aggiunta una considerazione più progettuale.
Nelle prime pagine non ci devono assolutamente essere testi lunghi
come questo (ma neanche un quarto di questo!). Solo lanci di notizie,
civette, ben organizzate sulla pagina, con buoni titoli e sommari.
Organizzate quelle pagine assieme ad un buon designer: non è (solo)
un problema di scrittura, ma di grafica.
Nelle pagine di destinazione, come questa, i testi possono (e a volte
devono) essere più lunghi. Se un utente è interessato e voi avete seguito
i suggerimenti, farà lo sforzo, oppure salverà la pagina e la leggerà
con calma, magari dopo averla stampata.

Questi consigli non sono affatto semplici da seguire. Spesso è
necessario un laborioso processo di riscrittura, di adattamento e di ‘potatura’
del testo, soprattutto se lungo. Affidatevi ad un buon web editor, ammesso
che ve ne siano di disponibili, che revisioni lo scritto dell’autore.
Gli articoli di Usabile.it vengono mediamente riscritti o corretti una
decina di volte. Per produzioni giornaliere questo non è possibile,
ma naturalmente le produzioni giornaliere non vivono di articoli così
lunghi. Ad ogni buon conto, il tempo passato a curare i contenuti è
sempre tempo ben speso, soprattutto se questi dovranno durare nel tempo.