Dare rilievo ai prodotti nei siti aziendali

Fra gli errori più comuni nei siti di piccole e medie imprese
(cioè non dei colossi che hanno grossi budget e maggiori esperienze)
vi è la curiosa tendenza ad occultare il proprio prodotto.
Lo abbiamo potuto verificare in una recente analisi su un campione di
oltre un centinaio di siti: molti dei siti aziendali, sia che prevedano
l’acquisto online, sia che vogliano solo offrire una vetrina ai loro prodotti,
tendono a focalizzare la comunicazione sull’azienda e non sul
prodotto
.

Centrare la navigazione sul prodotto

Esempi di questa tendenza sono home-page dove vi è una quantità
di link, uno solo dei quali rimanda però al catalogo prodotti.
All’interno di quella sezione si scopre magari che i prodotti sono articolati
in molte categorie. Ma l’emersione di queste categorie non è evidente
in home page, dove magari sono presenti molte più voci relative
all’azienda: la sua storia, il profilo, la mission, i rivenditori, i fornitori,
i partner… tutti elementi che focalizzano l’attenzione sul processo
aziendale, e non su quel che interessa all’utente: il prodotto!

Non si sta sostenendo che l’azienda debba essere ignorata. E’ giusto
che l’utente possa conoscere fatti importanti sull’azienda e sulla sua
storia, se lo desidera: in alcuni casi ciò può migliorare
la fiducia nell’azienda stessa. Ma questo non dev’essere il principale
obiettivo del sito. Agli utenti interessano i prodotti. Fin dalla home
page, se l’architettura informativa del catalogo prodotti è complessa,
è bene presentare le principali categorie di prodotti, in maniera
che l’utente:

  1. si faccia un’idea più ampia di cosa produce l’azienda senza
    dover cliccare in pagine interne: voci di menu più dettagliate
    aumentano infatti il profumo dell’informazione
    , e aumentano
    la probabilità che qualche utente trovi una voce che fa per lui
  2. possa recarsi direttamente nella categoria che più
    gli interessa, diminuendo il numero di passaggi

La cosa migliore è dunque sdoppiare i menu: riservare quello dedicato
all’azienda ad un widget d’interfaccia (per esempio la barra orizzontale),
e utilizzare un altro widget (come il menu laterale) per articolare le
offerte dei prodotti. Naturalmente c’è anche chi, come Amazon,
preferisce articolare i prodotti nei menu orizzontali, e ha poche voci
testuali in alto dedicate all’azienda. Il limite di questa scelta è
che è adatta solo a poche categorie. Oltre un certo numero, infatti,
si è costretti a presentare le etichette su più file sovrapposte,
rendendo più scomoda la lettura delle voci e aumentando il rischio
di sbagliare il click. Il vantaggio di questa scelta è che le voci
sono sempre tutte presenti nella parte alta della pagina.
In ogni caso, se c’è una sufficiente gamma di prodotti da mostrare,
è meglio separare il menu dedicato all’azienda o alle utilities
del sito (help, mappa, ecc) da quello dedicato alle categorie produttive.

Un’immagine vale di più…

Utilizzare una navigazione poco esplicativa è solo uno dei modi
in cui si può oscurare il proprio prodotto. L’altro modo più
diffuso, e per certi versi più evidente, è quello di non
mostrare alcuna immagine del prodotto stesso
! Curiosa a questo
proposito la scelta di siti che dedicano al prodotto solo lo spazio
delle voci nel menu, senza alcuna foto
o descrizione dettagliata
in home page, e a volte nemmeno nelle pagine interne. Abbiamo incontrato
un sito dalla grafica molto raffinata, dove persino nella sezione prodotti
la maggior parte dello spazio nella pagina è dedicato alle foto
di una discinta signorina che non mostra il prodotto, e che con il prodotto
in questione (si trattava di lucchetti…) aveva in comune solo poco eleganti
allusioni alla castità. Solo cliccando su un piccolo link (cripticamente
denominato "collezione") potevamo visualizzare (in un piccolo
popup…) una serie di foto con alcuni dettagli dei prodotti. Se le si
confrontava con lo spazio riservato all’inutile ma gradevole foto, si
poteva intuire come l’obiettivo del sito fosse stato tutt’altro che raggiunto.
Nel sito in questione inoltre erano necessari troppi click per visualizzare
finalmente il prodotto e alcune informazioni importanti su di esso: ben
pochi utenti arriveranno fino a quel punto.

Cataloghi da scaricare

Un’altra pratica sconsigliata e purtroppo ancora diffusa nel web italiano
è quella di rendere disponibili i prodotti soltanto su catalogo
scaricabile in pdf o in qualche altro formato. In questo modo non si fa
che rendere meno immediata e di fatto diminuire la diffusione dei propri
prodotti. Il pdf è un formato asusiliario, non il formato pricipale
in cui diffondere i propri prodotti. Certo non è un formato adatto
alla navigazione. Il catalogo dovrebbe essere disponibile per
la navigazione online, eventualmente con una versione alternativa per
lo scaricamento
.

No a gallerie di immagini senza contesto e senza dettagli

Naturalmente, anche il modo di mostrare le foto ha la sua importanza.
Evitate file di immagini di prodotti troppo piccole e prive di
descrizioni
. Danno una triste idea di accatastamento, povero
e disordinato, e non servono certo per valorizzare i vostri prodotti.
Scegliete: nell’home page mettete in evidenza uno o due prodotti, e dedicate
agli altri spazi più piccoli. Se non potete scegliere, utilizzate
un sistema di rotazione dinamico in home per alternare i prodotti nelle
posizioni principali. In ogni caso fornite link alle pagine di dettaglio,
che devono a loro volta essere altrettanto curate.

Le foto devono sì mostrare i prodotti, ma se lo spazio a disposizione
per l’immagine è molto piccolo, non c’è alcun beneficio
a mostrare un’immagine inintelleggibile del prodotto. E’ preferibile utilizzare
la tecnica del ritaglio selettivo (già illustrata da Nielsen) per
rimpicciolire solo un dettaglio significativo del prodotto, che lo renda
riconoscibile, senza rimpicciolirlo troppo. La foto può poi essere
linkata ad una immagine più ampia in una pagina di approfondimento.

Dedicate pagine di approfondimento ai prodotti

Ogni prodotto, oltre alla home o alla galleria in cui fa sfoggio di
sè assieme ad altri prodotti, dovrebbe avere una pagina dedicata,
dove trova spazio una scheda di approfondimento ed un’immagine più
ampia che consenta di valutarlo meglio. Alcune tipologie di prodotti (ad
esempio oggetti di design) traggono beneficio dal mostrare alcune foto
che ritraggono l’oggetto da angolazioni diverse, con luci molto curate
.
La pagina di dettaglio varia a seconda del tipo di prodotto: lo scopo
dev’essere sempre quello di fornire all’utente il genere di dettagli e
di informazioni di cui ha bisogno per fare le sue valutazioni. Non si
tratta solo del prezzo. In un negozio un utente entra in relazione diretta
con il prodotto. Sul sito questo contatto fisico gli è precluso,
ma è possibile tramutare questo limite in un vantaggio presentando
alcune informazioni che magari in negozio potrebbe non essere facile ottenere.
Ad esempio, raramente in un negozio esaminiamo nel dettaglio la scheda
tecnica di un oggetto tecnologico: ci limitiamo ai dati che sono scritti
sulla confezione, o a fare qualche domanda al commesso: privilegiamo cioè
il rapporto diretto con un intermediario cui deleghiamo alcune responsabilità,
instaurando un rapporto fiduciario. Online è possibile essere più
dettagliati, fare comparazioni fra prodotti, suggerire possibili usi in
azione del prodotto, cose che possono essere importanti per prendere decisioni
oculate anche in assenza di un rapporto fisico con l’oggetto. Il web è
informazione, ed è imperdonabile lesinarle.

Evidenziare offerte e promozioni

Particolare attenzione va data fin dall’home page all’evidenziazione
di promozioni e offerte speciali, naturalmente sempre associate
ai prodotti
. Oltre ad attirare l’utente, contribuiscono a dare
uno sguardo più in profondità su alcuni settori di produzione,
e danno subito all’utente informazioni sui benefit, in questo caso economici.
Offerte in bundle possono essere proposte anche nelle pagine di dettaglio
del prodotto stesso, quando un utente lo sta valutando ed è più
probabile che possa trovarsi a decidere se acquistarlo o no: in quel momento,
presentare un’offerta vantaggiosa può aumentare la probabilità
di orientare la sua scelta.

Minore efficacia hanno invece eventuali offerte di finanziamento staccate
dei prodotti o presentate nel momento sbagliato, quando l’utente non ha
ancora trovato il suo prodotto.

Conclusioni

Il punto focale di ogni sito aziendale deve essere quello di presentare
al cliente quello che al cliente interessa. E’ fondamentale resistere
alla tentazione di usare il sito aziendale come un’occasione per esibire
foto dei dirigenti, dei propri capannoni, dei premi, della propria storia,
a discapito del prodotto. Un sito dove l’azienda si pavoneggia su se stessa
o coglie solo l’occasione per sfoggiare immagini attraenti ma fuori tema
è un’occasione sprecata che genera disaffezione e a volte irritazione
da parte dell’utente. Un’azienda interessa se può offrire un buon
prodotto/servizio all’utente. E’ dunque il prodotto a dover essere messo
costantemente in primo piano, studiando anche il modo in cui l’utente
interessato acquisisce progressivamente informazioni e forma le sue decisioni
di acquisto.

Le considerazioni che qui abbiamo fornito sono quelle di base: vi sono
poi molti modi per presentare, anche lavorando sull’interattività,
tipologie precise di prodotti, e consentire all’utente un diverso grado
di approfondimento sul prodotto stesso. Un libro o una macchina agricola
vanno presentati in maniera diversa, con informazioni di tipo diverso.
Tuttavia entrambi devono anzitutto essere proposti, mostrati,
organizzati e resi disponibili nella maniera più immediata e facile
possibile
. Sono davvero troppi i piccoli e medi siti che ancora
non raggiungono questo obiettivo minimo, e organizzano il proprio sito
più sulla presentazione dell’azienda che sui propri prodotti.

Usabilità, modelli di business e scelte strategiche

Può l’usabilità far modificare anche le scelte strategiche
di un sito e persino il suo business model? Non solo lo può, ma
dovrebbe.

Alcuni anni fa svolsi dei test su un sito commerciale che evidenziarono
come il tipo di proposta commerciale e il modo in cui questa veniva mostrata
agli utenti non venivano assolutamente capiti da questi ultimi. I quali
tuttavia riuscivano perfettamente a muoversi nel sito,
dimostrando di apprezzare strumenti di navigazione, cue visivi e semantici,
convenzioni. In sostanza, il sito si comportava bene, ma gli utenti
non avrebbero mai fatto quello che il business model del sito richiedeva
facessero per rispettare i guadagni attesi
. Il test rivelava
che il business model non era adeguato alla realtà dei comportamenti
degli utenti, e avrebbe dovuto essere ripensato. In parte lo fu, ma non
bastò.

Tempo dopo il sito chiuse, nonostante i parametri "funzionali"
fossero buoni (tasso di penetrazione del sito, numero di pagine viste
per utente, eccetera). Le entrate economiche erano troppo poche rispetto
alle previsioni: accadde proprio ciò che i test avevano evidenziato
precocemente. Gli utenti non si comportavano come quel business model
pensava si sarebbero comportati.
Uno dei benefit principali delle tecniche di
usabilità
, e in generale di tutte le tecniche di progettazione
centrata sull’utente, è prorio quello di consentire di
prendere decisioni
. L’usabilità offre indicazioni, che,
per essere produttive, devono poter incidere sulle scelte: progettuali,
strategiche, di business. L’usabilità è dunque un
grande strumento in mano al management per orientare il progetto, correggerlo,
ripensarlo
. Meglio (cioè con maggiori benefici a parità
di costi) se in fase precoce.

Capita invece che l’usabilità venga considerata una specie di
verifica di make-up (e di mark-up….) del sito in fase finale, quando
tutte le decisioni sono state prese e non sono più modificabili.
In quel caso è possibile senz’altro dare qualche utile indicazione:
in fondo, l’usabilità identifica categorie di problemi molto diverse
fra loro. Ma ridurre l’usabilità a un semplice imbellettamento
del sito, senza consentire modifiche anche corpose che investono i vari
settori di produzione (programmatori, designer, ecc.) significa sfruttare
al minimo lo strumento
. Più o meno come usare la Ferrari
per andare in ufficio. Certo, ci si va, magari si fa anche bella figura,
ma non è certo un uso efficiente dello strumento…

I requisiti dell’utenza come vincoli di progetto

Uno degli aspetti più trascurati delle tecniche dell’usabilità
è la possibilità di confrontare il punto di vista del progettista
(o del management, o del programmatore, o di chiunque altro ha responsabilità
decisionali nel progetto) con il punto di vista dell’utenza finale. Capita
più spesso di quanto si creda che, nonostante il marketing sia
abituato ad usare focus group per studiare gli utenti, i progetti nascano
su basi fantasiose, o, più frequentemente, che si enfatizzino
nel progetto soprattutto gli aspetti che interessano di più ai
decisori, trascurando invece quelli che interessano di più agli
utilizzatori
. La cosa è abbastanza ovvia: i decisori sono
i primi clienti del marketing, che dunque tiene in particolare considerazione
le loro indicazioni, a costo di doverle talvolta imporre ai consumatori
finali. Tuttavia, in un ambito realmente interattivo, è impossibile
costruire prodotti che spingano gli utenti a comportarsi come la dirigenza
vorrebbe si comportassero. Se un utente non vuol fare una cosa, semplicemente
non la farà, per quanti link possiamo mettere
in evidenza e quanti slogan o testi esplicativi inseriamo nella pagina.

Capire cosa realmente vuole un utente da un prodotto o da una certa categoria
di prodotti è essenziale anche per realizzare le esigenze
e le aspettative della dirigenza
: ma il punto di vista dell’utente
è un vincolo, e spesso non è modificabile oltre un certo
livello. E’ dunque fondamentale capirlo e tenerlo in debita considerazione
in fase di progetto. L’usabilità ha degli strumenti che meglio
di altri riescono a mettere in evidenza i vincoli dati dalle aspettative
e dal punto di vista di un utente.

Alcuni esempi. Io posso ben pensare che un sito di booking online serva
a catalizzare l’attenzione del mio utente, a dargli un’impressione di
efficienza, affinché questo mi contatti telefonicamente per attivare
realmente il servizio (perché per motivi di sicurezza non voglio
trasferirlo completamente online). La realtà potrebbe non funzionare
così: l’utente si aspetta di fare tutto sul sito, altrimenti perché
dovrebbe raddoppiare gli sforzi (prima informarsi online, poi contattare
il servizio con canali tradizionali: a quel punto meglio rivolgersi direttamente
ai canali tradizionali, visto che deve farlo comunque)?

Ancora: io posso sperare di mettere delle FAQ
nel mio sito in maniera da diminuire il numero delle chiamate al numero
verde di assistenza clienti. Questo può funzionare se i problemi
che l’utente incontra con un servizio (ad esempio un servizio bancario)
non sono gravi, o, meglio, se l’utente cerca semplici informazioni preventive.
Ma se sul suo conto appare un addebito inaspettato, pensate davvero che
l’utente voglia innanzitutto consultare le FAQ? E’ molto più probabile
che, allarmato, si metta alla ricerca di un contatto diretto con la banca,
alzando il telefono o recandovisi di persona. Un’analisi potrebbe evidenziare
che semplicemente l’utente non prende proprio in considerazione l’ipotesi
di avvalersi di FAQ statiche per problemi gravi.

Allo stesso modo, perché un utente dovrebbe sottoscrivere un’assicurazione
online, senza la garanzia di un contatto diretto, se questa non è
economicamente molto più vantaggiosa di uno stesso servizio offline?

Potremmo fare altri esempi tratti da siti reali, dove si chiede agli
utenti di compiere azioni che per loro non sono ovvie o convenienti, o
che richiedono un’apertura di credito al buio nei confronti dell’ente.
Di fatto, poi, questi comportamenti non vengono attuati, e il risultato
è che il sito "non funziona" come se lo aspettava chi
lo ha progettato: non diminuiscono le chiamate all’help desk (anzi, magari
aumentano, per chiedere come funziona il sito…), non si crea fatturato
attraverso l’online, non vengo contattato grazie alle informazioni che
dò sul sito.

Il punto è che tutte queste cose si potevano prevedere
in anticipo
. Inserendo tecniche di usabilità (non necessariamente
test: anche questionari mirati, interviste con diverse tecniche) nelle
fasi precoci del progetto, è possibile raccogliere dati sulle aspettative
concrete dell’utenza in rapporto al sito. Cosa gradiscono, cosa si aspettano,
cosa non gradiscono o non si aspettano. E di conseguenza rimodellare il
progetto su ciò che gli utenti effettivamente faranno.

Usabilità o marketing?

Altre tecniche di analisi dell’utenza appartengono al marketing. A volte
è l’obiettivo di queste ricerche, a volte il metodo, ad essere
inadeguato all’online. Un esempio sono i focus group: una tecnica che
consente di raccogliere indicazioni e idee, anche innovative e creative,
su un progetto, un’idea o un prodotto, ma che è soggetta a dinamiche
di gruppo (naturalmente quella tecnica trae beneficio proprio dalle dinamiche
di gruppo opportunamente controllate: solo che non sono adatte
ai nostri scopi
). Le azioni online sono invece azioni private,
singole, che ognuno svolge fra sé e sé, davanti ad un computer
con il quale magari non ha nemmeno un buon rapporto. Molto spesso ciò
che qualcuno afferma in contesti di gruppo non è ciò che
vuole o ciò che fa (o riesce a fare) quando è da solo. Spesso
quel che fa davanti ad un computer non è addirittura quello che
pensava di fare.

Anche le interviste condotte in un piano di marketing si concentrano
spesso sugli attributi di un prodotto o sulla propensione a certi comportamenti.
Invece le interviste e i questionari condotti nell’ambito di un
intervento di usabilità
tentano di capire quello che l’utente
vuole e si aspetta da un servizio, ciò che gli serve, cosa fa e
farebbe davvero, e cosa invece non vuole fare. Molto spesso questi dati
vengono raccolti ed elaborati attraverso indicatori statistici che danno
un’idea anche della dispersione delle risposte, e queste indicazioni,
sebbene vadano comunque confrontate con obiettivi dell’azienda e possibilità
pratiche, possono far emergere un piano di priorità diverso da
quello che il management aveva in mente.

Il progetto orientato dallo studio preventivo (e controllato in più
fasi) dell’utente (e non dei gruppi) ha bisogno di minori correttivi in
corsa. Se queste analisi vengono condotte al momento giusto possono contribuire
ad evitare spese sbagliate. Ad esempio, se è necessario acquistare
un CMS
per la gestione di un sito, e lo si sceglie senza tener conto delle esigenze
degli utenti, ci si potrebbe trovare a scoprire che quel CMS non
consente di fare
(o rende difficile, e dunque crea delle resistenze
da parte dei programmatori che lo devono customizzare) cose che
per gli utenti sono essenziali.

Viceversa, magari ci si accorge che alcuni aspetti che credevamo essenziali
(e che quel CMS consente perfettamente di fare) non sono importanti per
la nostra utenza. E dunque è possibile scegliere e acquistare un
prodotto diverso, magari più economico: ma che sicuramente ci creerà
meno problemi.

Ovviamente le decisioni si prendono sulla base di molte considerazioni,
molte delle quali necessariamente interne all’azienda e non orientate
all’utente. Tuttavia utilizzare tecniche precoci di analisi dei bisogni
degli utenti consente di dare almeno un più equilibrato peso a
questi fattori nei processi decisionali, dove invece sono di solito sottostimati
o, peggio, addirittura distorti (si crede che l’utente voglia quello che
invece non vuole, e non si ha percezione di cosa vuole davvero). Tra le
tecniche adeguate a questo scopo, dunque, menzioniamo i questionari
(aperti o chiusi, con risposte multiple, scale likert, ecc.), le
interviste
, il card sorting, l’ideazione di
scenari d’uso, e altri di cui parleremo in futuro.

L’usabilità per prendere decisioni

E’ vero e legittimo dire che l’usabilità e le sue tecniche, se
condotte al momento giusto, servono non solo ad abbellire un prodotto,
ma soprattutto a prendere le corrette decisioni, a orientare le scelte
progettuali, a ripensare persino il business model, ottenendo
così un progetto più adeguato all’utenza. Il costo
ridotto
di queste tecniche e i benefici precoci
che ne derivano rendono questo processo molto spesso più economico
del consueto processo che fa partire un progetto e poi lo corregge in
corsa. Molti
autori hanno già dimostrato
che la progettazione centrata sull’utente,
anche se in apparenza sembra più dispendiosa di altri metodi, porta
infine a vantaggi economici e ad un risparmo di tempo e risorse. Questa
è esattamente anche la mia esperienza. Ma perché ciò
si verifichi è necessario un management illuminato,
che dia fiducia a questi metodi fin dall’inizio del progetto e sia in
grado di sfruttarne le indicazioni e di dar loro il giusto peso nei processi
decisionali.

L’efficacia dei banner

In questi giorni su molti portali si stanno diffondendo nuovi formati
di sponsorizzazione: si tratta di banner verticali, o a comparsa, o ancora
di animazioni che invadono e coprono l’intera pagina di un sito.

Formati che è più difficile ignorare, anche se certamente
rischiano di provocare reazioni di fastidio, almeno a sentire molti commenti
in diverse liste di discussione. Per loro stessa natura, annunci di questo
tipo puntano a interrompere e dirigere su se stessi l’attenzione dell’utente,
distogliendola dalla pagina e dunque dai motivi per i quali un utente
si era collegato. Insomma, l’usabilità di queste pagine certamente
cala, perché questi espedienti sono (volutamente) un intralcio
agli obiettivi dell’utente.

Finora l’efficacia dei banner tradizionali è stata valutata in
diversi modi. I più famosi sono:

  • le ‘impression’, ovvero il numero di volte che un dato banner è
    stato caricato nella pagina e quindi presentato ad un utente;
  • il numero di click, sia assoluto, sia rapportato al totale delle impression.

Queste due misure sono abbastanza diverse tra loro: l’impression non
implica alcuna azione da parte dell’utente. Al limite non implica nemmeno
che l’utente si sia reso conto e abbia effettivamente visto il banner.
Al contrario, il numero (o la percentuale) di click misura un’effettiva
azione dell’utente, e ha un certo valore: non solo è stata raggiunta
l’attenzione del visitatore, ma si ha l’indicazione di averne suscitato
un qualche interesse, almeno in teoria.

Ben presto ci si è resi conto che la percentuale media di click
dei banner, dopo un’iniziale buon risultato, è iniziata sistematicamente
a scendere. Cosa succedeva? Gli utenti sembravano ignorare progressivamente
questi annunci, tanto da far dimezzare la percentuale di click ogni anno,
fino ad attestarla su valori medi oscillanti fra lo 0,1 e lo 0,2 %. Valori
bassissimi, a meno di non programmare un’esposizione massiva, alla portata
di poche tasche. I prezzi dei banner di conseguenza sono crollati e i
pubblicitari hanno cominciato a temere di veder frenare un mercato fino
ad allora in espansione, o quantomeno molto promettente.

La cecità al banner

Alcune ricerche hanno messo da tempo in luce un fenomeno noto come ‘cecità
al banner’ (banner blindness: Benway, J.P,1998). Secondo queste ricerche,
i banner verrebbero addirittura evitati attivamente dagli utenti, che
ignorano le informazioni presentate su questi annunci anche quando
queste informazioni sembrano attinenti
con lo scopo della ricerca
che stanno facendo! In pratica, la dichiarazione ‘scientifica’ della morte
del banner come strumento di advertising…

I pubblicitari negli ultimi anni hanno quindi iniziato ad escogitare
varie scappatoie: per un certo periodo hanno prosperato banner che simulavano
‘messaggi di sistema’, ovvero schermate che sembravano messaggi del sistema
operativo, riproducendo i bottoni a rilievo, o messaggi di allarme, o
ancora option button. Questo espediente mirava essenzialmente ad ingannare
l’utente, mimetizzando il banner dietro un widget di interfaccia che sollecitava
una precisa affordance: un invito all’azione. Ben presto però anche
questi espedienti hanno fatto il loro tempo: gli utenti imparano progressivamente
a riconoscerli e ad evitarli.

Ecco dunque nascere un estremo tentativo di evitare l’evitamento: con
banner più grandi, di formato insolito, o più invasivi.
Questa strategia assomiglia molto al tentativo di urlare più forte
in un luogo già molto rumoroso. Questi sistemi probabilmente porteranno
un iniziale aumento dei click dovuto ad un’effetto di novità, per
poi decadere come tutte le altre forme viste finora. Il rischio è
anche quello di un evitamento progressivo dei siti che fanno uso massiccio
di questi meccanismi, anche se si tratta soltanto di un’ipotesi: non vi
sono dati in merito.

La capriola più divertente è però un’altra: dal
momento che sul click-rate non si può più far molto affidamento,
molti pubblicitari iniziano a sostenere che si tratti di una misura sbagliata:
i banner andrebbero valutati per la capacità di ‘creare brand awareness’,
ovvero di diffondere la consapevolezza di un marchio, piuttosto che per
il fatto di portare visite ad un sito. Non c’è dunque più
bisogno del click!
Ovviamente, la brand awareness non è direttamente misurabile, a
differenza del click-rate. Di conseguenza, è anche molto meno obiettabile,
e i listini prezzi possono mantenersi più stabili…

Il ragionamento alla base sembra il seguente: gli spot televisivi o i
cartelloni stradali non si valutano per la loro capacità di far
fermare un passante e farlo entrare in un negozio a comprare quel prodotto,
ma per la capacità di comunicare il marchio. Perché dunque
non dovremmo valutare allo stesso modo anche il banner? Il click implica
un’azione, mentre il banner può anche semplicemente ‘comunicare’.
Siccome comunicare su uno striscione di 468×60 pixel è obiettivamente
difficile per un creativo, ecco nascere questi lenzuoli semoventi con
i quali vengono tapezzate le home page di molti portali, nel tentativo
di rivitalizzare gli investimenti nel settore della pubblicità
online.

La brand awareness esiste

E’ però difficile sostenere che tutto si possa ricondurre alla
semplice brand awareness senza avere alcun riscontro oggettivo. E infatti
va onestamente ammesso che alcune ricerche danno esiti promettenti. Businesswire
ha pubblicato già nel 1999 una ricerca che dimostrerebbe una certa
efficacia del banner tradizionale nel veicolare un brand. Per quanto attiene
all’usabilità e alla ricerca cognitiva, uno studio di Bayles (2000)
condotto con due soli banner, ad esempio, riesce a dimostrare 2 cose:

  1. Il 40-46% degli utenti rievoca i banner (ricordo attivo, recall);
    di questi, una percentuale comunque minore ricorda anche il marchio
    associato al banner.
  2. Il semplice riconoscimento (recognition) del banner è invece
    migliore: la totalità dei soggetti riconosceva almeno uno dei
    banner presentati, e una maggioranza li riconosceva entrambi.

La ricerca è condotta con materiali datati e comunque relativi
a marchi riconducibili all’attività internet: ebay e amazon.
La brand awareness dunque sembra esistere, almeno in certe condizioni.

Una ricerca recente riportata da Andrea Folcio, d’altra parte, mette
in luce che la complessiva efficacia del banner (quello tradizionale e
alcune versioni più piccole) dipende da diversi fattori. Eccone
alcuni:

  1. la creatività del banner. Vi sono banner di maggior
    appeal, e danno esiti molto diversi.
  2. il periodo dal lancio: anche i banner migliori, comunque, si
    dimostrano efficaci (click-rate) solo per un breve periodo di tempo
    (dalla seconda alla terza settimana di esposizione), poi smettono di
    suscitare interesse. I banner mal progettati, tuttavia, non hanno questo
    andamento: la loro efficacia rimane bassa per tutto il periodo di esposizione.
    Paradossalmente, si possono mantenere più a lungo, a meno di
    non trovare un banner migliore…
  3. Il contenuto visivo: banner con immagini sembrano comunque
    migliori di banner testuali: ma non è chiaro cosa si intenda
    con banner testuali (testo che simuli il testo della pagina, e che quindi
    mimetizza il banner, o testi vistosi?). Ma soprattutto:
  4. La congruenza tematica del banner con la pagina che lo ospita.
    In questo caso il click-rate dei banner analizzati arriva fino al 7%!
    Si tratta in pratica di banner riportanti annunci che sono in tema con
    l’argomento della pagina che l’utente sta visitando, e quindi sono più
    interessanti per quell’utente.

La congruenza fra il banner e la pagina che lo ospita si dimostra
un fattore molto importante nella pianificazione di una cambagna banner,
e c’è da giurare che si dimostrerà valido anche nei banner
più recenti, a grandi dimensioni o addirittura interattivi. Non
solo: questo risultato smentisce la ricerca di Benway sulla presunta cecità
ai banner anche quando congruenti con gli scopi dell’utente!

La cecità al banner per la verità era stata messa in discussione
anche da una nota ricerca dell’istituto Poynter.org: attraverso lo studio
dei movimenti oculari, risultava che ai banner veniva comunque riservata
una rapida occhiata (circa un secondo) durante l’esplorazione visiva della
pagina. Lo stesso Nielsen, d’altra parte, rileva come potenzialmente validi
banner esposti sui motori di ricerca nel caso questi siano congruenti
proprio con gli scopi della ricerca.

La cecità al banner sembra dunque un costrutto privo di reale
fondamento: sembra piuttosto che gli utenti vedano i banner, ma
scelgano di evitarli (o di non approfondirne l’analisi del contenuto)
se non si aspettano che siano di loro interesse. Aspettative e schemi
mentali sono ciò che guida la navigazione dell’utente, e l’evitamento
dei banner dipende proprio dal fatto che molti utenti non si aspettano
che i banner possano aiutarli a raggiungere i propri scopi
. Non è
forzandoli a vedere banner più grandi che li si potrà convincere,
ma dandogli qualcosa che li possa interessare di più!

Sviluppare nuove metodologie di advertising

Pare che il banner, in generale possa alla fin fine mantenere una sua
efficacia: ma bisogna realizzarlo in maniera creativa (il significato
di ‘creativo’ è in questo caso ancora da definire…) e legarlo
il più possibile agli interessi dell’utente. Rimane da capire se
questa efficacia sia sufficiente a reggere il mercato dell’advertising
on-line: i siti tematici infatti hanno, sì, utenti più targettizzati,
ma anche un traffico minore, anche se di maggior qualità. Può
darsi che una campagna che si basi solo sui siti tematici non raggiunga
i risultati sperati, e che un bilanciamento della campagna fra siti tematici
e generalisti non sia in tutti i casi conveniente e sostenibile. Queste
considerazioni aprono nuovi spazi, ma anche nuovi problemi.

La tendenza ad invadere ancora di più la pagina con gli ultimi
formati dei banner pare invece solo l’estremo tentativo di forzare il
medium web a misure e utilizzi propri del medium tv, con l’aggiunta di
una rudimentale ‘interattività’, mantenendo il carattere intrusivo
del messaggio pubblicitario (ricordate la polemica di 15 anni fa sugli
spot nei film?).
Anche l’utilizzo di Rich Media, ovvero multimedialità, nei banner,
va in questo senso: attirare maggiormente l’attenzione. Una ricerca della
già citata Bayles sembra al contrario dimostrare che le animazioni
non incidono sull’efficacia del banner
: sono altri i fattori importanti,
come abbiamo in parte visto, e spesso si anzi è dimostrato che
rendere una cosa semplicemente più grande e vistosa rischia di
farla percepire come incongruente rispetto agli scopi di navigazione e
quindi di favorirne l’evitamento. Questa è infatti proprio l’interpretazione
che Donald Norman dà per spiegare i risultati della ricerca di
Benway sulla cecità ai banner già citata.

Il tema è indubbiamente molto delicato: ma l’advertising on-line,
per decollare definitivamente, non può rinunciare a mettere a punto
analisi e strumenti più sofisticati e ‘gentili’, che prefigurino
un modello di soddisfazione reciproca (win-win: soddisfare sia l’utente
sia l’inserzionista), piuttosto che un modello intrusivo e tutto sommato
poco ‘intelligente’ come quelli verso cui ci si muove in questo periodo.

Altre soluzioni, ad esempio, prevedono l’utilizzo dell’advergaming, ovvero
di giochi interattivi legati a sponsorizzazioni. Anche in questo caso
pare però che l’effetto migliore sia quello di generare brand awareness,
piuttosto che visite. Il dibattito è aperto, e forse la soluzione
non è proprio dietro l’angolo.