Font-stack, @font-face, Cufòn e fratelli: come usare nuovi font nelle pagine web

Per anni i web designer hanno avuto scelte limitate riguardo ai font da usare sulle proprie pagine web, dovendo ripiegare su quelli più diffusi sui computer dei loro utenti (Verdana, Arial, Courier, ecc: vedere questo articolo).

Negli ultimi anni sono avvenuti almeno due fenomeni di rilievo, che possono cambiare la qualità del web design come lo conosciamo oggi:

  1. Sono stati creati e diffusi su molti computer nuovi font per il monitor. La sola Microsoft ha diffuso font come Constantia, Corbel, Calibri, Cambria, Candara, Consolas, prodotti e pensati per le sue applicazioni e diffusi sui nuovi computer con il sistema operativo Vista, ma anche su Mac con le suite di Office.
  2. A prescindere dai font presenti sui computer degli utenti, si sono diffuse alcune tecniche per utilizzare font direttamente via web, o come immagini o grazie a nuove potenzialità dei browser.

È dunque giunto il momento di arricchire le nostre scelte tipografiche sul web? Quanto è sicuro utilizzare questi font nelle proprie pagine web? E quali tecniche sono più adatte?

Le prime tecniche di image replacement

Già prima dell’introduzione di nuovi font, i web designer si erano affidati a tecniche di image replacement per sostituire, attraverso i CSS, delle immagini di background al testo prodotto dal browser. La tecnica di base può venir automatizzata con librerie php e javascript come Facelift e con l’uso di Flash (la tecnica è chiamata Sifr; qui in versione Sifr 3, la più aggiornata, opera di Mike Davidson) per generare automaticamente, a partire dal font o da una versione ricodificata del font stesso, immagini anche su più righe, perfino utilizzando gli stili CSS. La versione in Flash rende il testo addirittura ridimensionabile e selezionabile. Il tutto degrada a testo standard per gli utenti che non hanno a seconda del caso javascript o Flash attivo.

I problemi con queste tecniche sono comunque diversi:

  1. Se si disabilitano i css, javascript o le immagini, da soli o contemporaneamente, si possono avere problemi di accessibilità (è disponibile un test dei punti di forza e di debolezza delle diverse tecniche)
  2. Alcune tecniche prevedono che sia presente sul server una copia del font, o una sua versione ricodificata in Flash. Questo apre la porta a problemi di licenza: i font sul server possono infatti essere intercettati e, se non opportunamente protetti, scaricati illecitamente. Anche dalla versione in Flash può, teoricamente, essere ricostruito il file originale, anche se la procedura è comunque meno semplice che reperire il font direttamente sulle reti di file sharing.

Al netto di questi problemi noti, le tecniche erano comunque sufficientemente robuste (o i difetti poco rilevanti per il pubblico di quei siti) da essere usate anche in siti di vasta audience, per migliorarne la resa estetica, elemento importante anche per aumentare la tolleranza degli utenti, l’usabilità percepita e la credibilità.

Sebbene ancora usate e utilizzabili, le tecniche di image replacement sono state recentemente affiancate da nuovi espedienti che promettono di ottenere risultati anche migliori. In particolare:

  1. Per chi non avesse esigenze di perfezione nella resa dei font, ma volesse usare i font più recenti almeno per gli utenti che li hanno installati, è sempre possibile usare nuovi font-stack.
  2. Tecniche javascript per disegnare il testo a partire da un font sorgente, usando funzioni avanzate, come VML per Internet Explorer e altre introdotte da HTML 5 (<canvas>) per gli altri browser. Sebbene HTML 5 sia una specifica in progress, alcune sue parti sono state implementate già da alcuni browser (Safari, Firefox, Opera e Chrome), e consentono di far disegnare le lettere direttamente al browser, senza la necessità di produrre e caricare immagini; per Explorer, che non supporta <canvas> si può usare VML, appunto, implementato silenziosamente sul browser di Redmond fin dalla versione 5.0, e finora scarsamente utilizzato (anche Google Maps però usa VML, standard aperto proposto fin dal 1998 da alcune aziende, su Explorer 5.5 e successivi, mentre fa uso di SVG, specifica ufficiale del W3C, sugli altri browser).
  3. L’uso nel css della regola @font-face, proveniente direttamente dalle specifiche CSS3, che non sono ancora definitive, ma, come per HTML5, sono già parzialmente implementate su molti browser.

Queste tecniche si stanno sostituendo alle tecniche di image replacement, rendendole obsolete, e stanno offrendo la possibilità concreta ai web designer di usare font non consueti sulle proprie pagine web.

Vediamo i pro e i contro (che non mancano) di queste tecniche, il loro grado di maturazione e come usarle nella produzione di siti già oggi.

I font-stack

La proprietà font-family dei CSS consente di specificare font diversi, separati da virgola. I browser tenteranno di utilizzare il primo font, se disponibile sul computer dell’utente. In caso negativo proveranno con il secondo, e così via. È sempre stata buona norma usare più di un font nelle dichiarazioni di proprietà font-family, in modo da accomodare tutti, scrivendoli dal più particolare (e meno diffuso) al più generale e diffuso. E lasciare come ultima indicazione non un font, ma un’indicazione generica di famiglia, come serif o sans-serif (con grazie o senza grazie, una macro-distinzione fra i font). Questa sequenza è uno stack, una pila di font utilizzabili in successione in caso di assenza del font precedente.

Spingendo questo comportamento, implementato da tutti i browser, all’estremo, è possibile scrivere regole css che propongano per primi i font più recenti, per poi degradare, progressivamente, verso font meno recenti ma più diffusi, più generici. un esempio di font-stack è il seguente:

body {
font-family: “Hoefler Text”,
“Goudy Old Style”,
Georgia,
serif;
}

In questo modo, chi ha uno dei primi font, vedrà quello. Gli altri vedranno il Georgia o, se non ce l’hanno, il più generico font graziato disponibile (solitamente il Times New Roman o il Times).

È disponibile un ottimo articolo che presenta questa tecnica assieme ad una matrice dei font più installati.
Esistono inoltre ottimi generatori di font-stack che tengono conto della base di font installati, secondo le statistiche note, sui principali sistemi operativi, e costruiscono una gerarchia. Qui ulteriori risorse sui font-stack. Provateli: ma naturalmente questa tecnica è adatta solo se non vi importa la precisione e se usate font che siano non troppo diversi da quelli più diffusi.

Tecniche javascript

Come già detto, è possibile già oggi consentire al browser di disegnare direttamente il testo con un font, usando per explorer un linguaggio nativo, VML, per gli altri browser l’implementazione del tag <canvas> proveniente dalle specifiche incomplete di HTML 5.
Queste tecniche si appoggiano a javascript (e non sono realizzabili in puro HTML/CSS) per due ragioni:

  1. Per servire tecniche diverse a browser diversi
  2. Per “tradurre” il font originale in un formato utilizzabile da javascript.

Le librerie più diffuse pronte all’uso che utilizzano questa tecnica sono:

Da test prestazionali sembra che Cufòn sia il più efficiente. Questi sistemi funzionano così:

  1. Prima di tutto bisogna creare una versione javascript del font (per Cufòn è possibile crearla da questa pagina, mentre per Typeface qui.)
  2. Poi si caricano font in formato javascript e libreria completa sul server
  3. A quel punto si referenziano nella pagina HTML
  4. Con una chiamata diretta si indica a quali selettori applicare il nuovo font; di default Cufòn supporta solo selettori diretti, ma è in grado di usare jQuery come selector engine
  5. A quel punto è possibile usare una normale dichiarazione css per modificare dimensione e colore dei font, come per qualunque altro font installato sul computer.

I difetti sono:

  1. La non comoda selezionabilità del testo – Con Cufòn il testo rimane selezionabile in molti browser (non tutti), ma non sempre la selezione viene evidenziata, dunque un utente di competenze medie può pensare di non riuscire a selezionarlo; con Typeface la selezionabilità è stata aggiunta in seguito e aumenta il peso del javascript (è possibile rinunciarvi)
  2. un ovvio aumento di peso dato dai file aggiuntivi (a questo proposito piò essere utile il discorso fatto su usabile.it a proposito del peso delle home page)
  3. il decadimento di prestazioni sopra un certo numero di caratteri (attorno al migliaio) che rende queste tecniche già utilizzabili per titoli e sommari, ma non per il corpo del testo
  4. Problemi di licenza – Infatti i font utilizzabili online sono solo quelli la cui licenza lo prevede. Attualmente, i font commerciali dovrebbero prevedere troppe varianti alla licenza d’uso (usarli liberamente sul web è diverso che usarli liberalmente su Word, per dire…) per essere un’alternativa di prossima realizzazione, sebbene sia in corso un intenso dibattito sull’argomento, anche presso li W3C, dibattito che esula però dagli scopi di questo articolo.

Ci sono diverse soluzioni ai problemi di licenza:

  1. usare solo font free (e ce ne sono di ottimi)
  2. usare un servizio specifico che assolve alla fonte il problema, versando delle royalties dominio-specifiche (il font verrà anche protetto contro lo scaricamento deliberato). Alcuni servizi di questo tipo già esistono, e altri ne sono annunciati. In pratica, anche i font, sul web, si potranno pagare come un servizio, se questo modello funzionerà.

Dovrebbe a questo punto essere chiaro, insomma, che i problemi di licenza sono più complessi di quelli tecnici, tanto che molti cominciano a lamentarsi dell’arretratezza complessiva della normativa sui diritti di utilizzo, non solo di software e musica, ma di tutto ciò che si può avere in formato digitale (cioè qualunque prodotto di comunicazione).

In definitiva, le tecniche javascript sono già mature, utilizzabili per testi brevi ma non brevissimi, a patto di risolvere i problemi di royalties. Naturalmente chi non ha javascript attivo vedrà una versione della pagina con un font normale, dichiarato nel css secondo l’ordine di priorità.

Il font-embedding e l’uso della regola @Font-face

La regola @font-face, prevista nei CSS3, prevede – se l’utente non lo ha installato sul suo computer – lo scaricamento di un font dal server per l’uso diretto, incorporato, nella pagina web. Sorprendentemente, è supportato da moltissimi browser. Dunque, è una tecnica già utilizzabile, e non ha le controindicazioni di limiti alla lunghezza del testo e di peso di ulteriori file (tranne il font, naturalmente, che può pesare qualche decina di kilobyte). I difetti principali di questa tecnica sono tre:

  1. Problemi di licenza (per i quali valgono sostanzialmente le stesse considerazioni fatte per la soluzione javascript)
  2. Non è utilizzabile da Firefox per le versioni inferiori alle 3.5 (un bacino d’utenza ancora alto: al momento in cui scriviamo tra il 16% e il 25% a seconda dei siti); questi potranno però leggere i propri testi in un altro font, secondo l’ordine di graceful degradation della corrispondente dichiarazione CSS.
  3. Richiede un hack per Internet Explorer. Tuttavia, l’hack è in questo caso robusto e testato (anche se lo è solo da inizio settembre 2009). Semplicemente, bisogna servire Explorer con un diverso formato del font (un formato dedicato, EOT, per la quale può servire un’utility di conversione), e con una dichiarazione dalla sintassi specifica.

Il modo corretto per servire un font a tutti i browser che la supportano, è, dunque, secondo questo articolo di Paul Irish, da cui è tratto l’esempio, la seguente:

@font-face {
font-family: ‘Graublau Web’;
src: url(‘GraublauWeb.eot’);
src: local(‘Graublau Web Regular’), local(‘Graublau Web’),
url(‘GraublauWeb.otf’) format(‘opentype’);
}
h1 {
font-family: ‘Graublau Web’, Arial, sans-serif;
}

Così si definisce la nuova famiglia “Graublau Web”, che poi può essere usata in seguito in qualunque dichiarazione css, come una famiglia font qualsiasi. La prima dichiarazione src è per Explorer, e usa il formato proprietario .eot (che peraltro è anche l’unico ad essere in regola con i problemi di licenza, perché incorpora un meccanismo di DRM) . La seconda è per gli altri browser, e non viene capita da Explorer a causa dell’istruzione format(), che blocca il suo parsing. Il nome del file deve essere messo fra virgolette (doppie o singole) per Opera. Il nome del file nella dichiarazione local deve corrispondere al nome del font (non del file), comprese le maiuscole.

Attenzione: Per Explorer il formato deve essere .eot, che si può produrre a partire da un file True Type (.ttf) con alcune utility di conversione: ad esempio Weft (è per sistemi Windows, scaricabile dal sito di Microsoft), oppure questo tool online. Per gli altri browser il formato può essere Open Type (.otf) o True Type (.ttf). Nel primo caso si scriverà format(‘opentype’), nel secondo format (‘truetype’). È possibile usare per la conversione anche FontForge, programma scarsamente usabile anche se molto potente, per Mac e Linux. Questo programma effettua anche una conversione in formato SVG, che può essere utile, come vedremo tra poco.

Tutti i browser tranne explorer, cercano prima il file nel computer locale dell’utente. Solo se non lo trovano, lo scaricano dal server e lo utilizzano.

Usare il formato SVG per includere altri browser

Dalla festa rimangono, allo stato attuale, esclusi alcuni browser. Oltre a Firefox nelle versioni inferiori a 3.5, che andranno progressivamente a ridursi, anche Chrome non supporta nativamente i webfont fino alla versione 3. O meglio, li supporta, ma dopo un’attivazione da linea di comando. Qualcosa che il nostro utente non farà mai. È annunciato un supporto per la versione 4 stabile, ma al momento non si vedono novità dalle versioni alfa. C‘è però un formato supportato sia da Chrome 0.3 e successivi, sia Opera 9 e successivi, sia da Safari in versione iPhone OS 3.1. Si tratta del formato SVG: in pratica, il nostro font viene ridefinito in questa variante di XML, già standard W3C per la grafica vettoriale.

Con FontForge è possibile fare una conversione da .ttf a .svg del nostro font, eventualmente anche eliminando parte dei glifi non usati per alleggerire il peso del font (operazione chiamata “subsetting”). A quel punto la regola di Paul Irish può essere riscritta come segue:

@font-face {
font-family: ‘Graublau Web’;
src: url(‘GraublauWeb.eot’);
src: local(‘Graublau Web Regular’), local(‘Graublau Web’),
url(“GraublauWeb.svg#lg”) format(‘svg’),
url(‘GraublauWeb.otf’) format(‘opentype’);
}
h1 {
font-family: ‘Graublau Web’, Arial, sans-serif;
}

La chiamata al formato .svg va eseguita referenziando anche l’id del font, che trovate nel tag <font id="lg"> aprendo il file prodotto con un editor di testo. Così abbiamo incluso anche Chrome, Opera9 e Safari mobile nel nostro parco browser, con relativamente poco sforzo (una volta imparata la conversione). Cioè un altro 5-10% di browser a giudicare dalle nostre statistiche. Rimane escluso praticamente solo il 15% per cento che usa una versione inferiore alla 3.5 di Firefox (queste percentuali sono solo indicative e possono cambiare anche di molto a seconda della tipologia di sito).

La miglior soluzione e alcuni piccoli problemi

Va precisato che in prospettiva (da qui in avanti) questa sembra di gran lunga la soluzione migliore, sia per facilità di implementazione, che per ragioni di accessibilità. I problemi tipici dell’image-replacement e della disabilitazione di immagini, css e javascript, vengono infatti risolti automaticamente, perché non c‘è alcuna immagine da generare. Purtroppo non sembra dietro l’angolo la soluzione dei problemi di diritti per le licenze online dei font. Si tratta di capire se questo significherà un aumento dell’utilizzo dei font free, alcuni magari cloni veri e propri di font commerciali più noti, oppure il successo di servizi di Font-as-a-service, o, magari, il diffondersi, come in altri campi, di pratiche di utilizzo diffuso dei font pur in mancanza della licenza.

Problemi tecnici con le varianti dei font

Alcuni font sono distribuiti con più “pesi”. In teoria via CSS si puòi specificare il peso di un font (dall’ultra-light all’ultra-black) con la proprietà font-weight: 100-900. In realtà questo non avviene, anzi, vi sono discrepanze fastidiose con diversi browser. Potete farvene un’idea più precisa in quest’articolo di Richard Rutter. Sono disponibili altre informazioni su differenze di rendering e di kerning, e un test case su diversi modi di servire il font via css, inclusa la codifica base64.

Problemi di licenza e soluzioni miste

I problemi di licenza e l’uso del @font-face embedding sono al centro del sito Font Squirrel, che presenta moltissimi font free e già con un kit di formati e le regole CSS pronte per il @font-face embedding.

Due soluzioni (e doppio lavoro) in una

Se usate font free, cioè se risolvete i problemi di licenza, è possibile anche pensar di usare in contemporanea @font-face e Cufòn, in modo da coprire un maggior numero di browser. Con un check javascript è possibile valutare se il font è disponibile, sia direttamente sul computer dell’utente che tramite scaricamento con @font-face. Ad esempio, questo check andrebbe bene per le versioni di Firefox inferiori alla 3.5. Nel caso il font non risultasse disponibile, né il browser supportasse @font-face, allora si potrebbe passare ad utilizzare Cufòn.

La procedura dettagliata e i file javascript necessari sono disponibili in questo articolo di Kilian Valkhof. Ci sono alcuni effetti collaterali (ad esempio in Explorer, perché Cufòn verrebbe prima applicato e poi sostituito con il @font-face, e le contromosse, che pure esistono, non sono così robuste). Insomma si rischia di complicarsi la vita: dovete valutare valutare voi se il vostro design merita tutto questo lavoro. Dal lato utente, è chiaro che @font-face è la soluzione migliore perché permette selezionabilità del testo e stati :hover sui link. Si tratta di valutare se,

Il futuro

Con l’obsolescenza delle vecchie versioni di Firefox, verrà sempre più usata la tecnica che si basa sul @font-face, usando Cufòn solo come alternativa temporanea. Aprendo a sua volta dei problemi: come evitare che, come nei primi anni del web, si usino font illeggibili, problematici, non nati per il monitor? Come preservare una corretta leggibilità? Il consiglio è di usare font di cui si conoscano le prestazioni di leggibilità (ma ricerche del genere non sono frequenti), o di limitarsi, nell’uso di font anomali, a quelli più leggibili e comunque a caratteri sufficientemente grandi (oltre una certa dimensione, molti font hanno leggibilità paragonabile).

Sintesi

In sintesi:

  • Se vi importa la precisione grafica per la quasi totalità dei vostri utenti e non vi importano molto le questioni di accessibilità, né il peso (file immagine diversi possono dover essere caricati in pagine diverse, rendendo impossibile il caching); o se volete per forza usare font che non hanno licenze web, dovrete continuare a usare le tecniche di image-replacement.
  • Se vi importa la precisione grafica e volete essere sicuri che venga preservata per il più ampio pubblico possibile, non vi crea difficoltà usare solo font free, e riuscite a tenere sotto controllo il peso complessivo dei file prodotti (che vengono scaricati solo alla prima pagina), scartate i font-stack e l’image replacement e orientatevi su tecniche javascript, oppure, valutandone la fattibilità, soluzioni miste @font-face + tecniche javascript.
  • Se vi importa la precisione grafica, ma siete in grado di tollerare che una certa percentuale di utenti (che andrà progressivamente calando) visiti una versione subottimale del vostro design, e non vi servono font non free, usate il @font-face: la scelta pagherà con il passare del tempo.
  • Se non vi importa la precisione grafica ma volete solo variare un po’ i vostri font, anche solo per una parte dei vostri utenti, provate a usare i font-stack. Eliminerete anche i problemi di licenza, oltre che quelli di peso, perché non dovete caricare nulla sul server.

Gli scenari coperti dalle varie soluzioni, come si vede, sono piuttosto differenti, non sovrapponibili. L’importante è che definiate i vostri obiettivi e valutiate i pro e i contro delle diverse tecniche nel vostro specifico caso.

Ulteriori letture

Corsi e aggiornamenti

Il tema di questo articolo è discusso anche nel nostro corso di css design, proposto in-house ad enti e aziende. L’articolo potrebbe venir modificato in seguito alle prime letture per render conto dell’inevitabile evoluzione della materia. Ne daremo conto sul blog.

Verso l’usabilità semantica

L’ingegneria dell’usabilità nasce in ambito software e da quell’ambito si sposta progressivamente sul web portandosi dietro armi e bagagli: ovvero un insieme di tecniche e di metodi già sviluppati per l’analisi dei problemi di utilizzo dei prodotti a base informatica: test con utenti, linee guida, euristiche, metodi formali basati sulla rigida scomposizione dei task in componenti elementari, e così via.

Negli ultimi anni però è andato aumentando il numero di studiosi che ha rilevato che questo armamentario rischia di non essere del tutto adeguato al web. In particolare hanno notato delle differenze nel modo in cui gli utenti si comportano nell’interazione web rispetto a quella con i software.

Paradigmi d’interazione software

Nel campo software i modelli dell’interazione sono basati sul compito (task). In generale hanno in comune una serie di assunti:

  • l’utente si muove di solito in ambienti noti (i software) e ad alta stabilità (ogni volta che li apriamo, i software si presentano in maniera simile alla precedente, e anche fra diversi software c’è un’elevata uniformità dei meccanismi di funzionamento), dove bisogna compiere una serie di azioni ripetute, che mirano allo stesso risultato nel tempo; è così possibile un apprendimento
  • solitamente l’utilizzatore ha delle competenze specifiche nello specifico ambito di applicazione di un certo software (l’utente di un programma grafico sa di grafica, un utente di un pacchetto di contabilità conosce la materia, eccetera) e questo rende possibile essere molto precisi nella terminologia o nella progettazione di certe sequenze d’azione che ad un principiante sembrerebbero molto difficili.
  • grazie alla standardizzazione offerta dal sistema operativo, poi, gli oggetti dell’interfaccia (bottoni, menu, slider, ecc) sono noti e il loro funzionamento è predicibile e costante
  • i paradigmi d’interazione sono coerenti: funziona sempre il doppio click, si può fare il trascinamento di oggetti, che sono manipolabili per selezione diretta.

In tale ambito è del tutto normale che gli studiosi misurino il tempo di esecuzione, il numero di azioni svolte, diano importanza all’efficienza e ai test con gli utenti. Infatti, se un compito complesso viene ripetuto frequentemente, l’efficienza gioca un ruolo importante, ed è ben tollerabile una certa difficoltà di apprendimento iniziale. Ce lo ricorda anche Andrei Herasimchuk, già progettista d’interfaccia di Adobe:

“Il mio principale obiettivo è quello di creare un prodotto che funzioni nella maniera più efficiente possibile per utenti esperti e ripetuti, poi per i novizi, e infine per gli utenti non esperti e occasionali”.

E del resto è logico. Perché alla fine ad imparare queste interfacce ci riusciremo, ma se il compito ha una struttura intrinsecamente complicata e non a misura d’uomo (se richiede troppi passaggi, o azioni controintuitive, o che non consentano una gestione sicura dei dati, o che obbligano a tenere in memoria molte informazioni su cosa fare in ogni punto), lo stress che ne consegue si ripeterà uguale ad ogni utilizzo del programma, creando un ostacolo all’uso quotidiano soddisfacente del prodotto. Se le cose stanno così, è anche facile identificare scenari d’uso precisi, su cui svolgere test di usabilità con alti margini di attendibilità.

L’interazione sul web

Il web è un ambiente in cui queste premesse non sono più vere. Almeno per quanto riguarda i siti informativi (per quanto riguarda le applicazioni web, valgono almeno in parte altri discorsi).

A differenza del software, vi è una variabilità elevatissima:

  • nessun sito è identico ad un altro, raramente passiamo su un sito abbastanza tempo da impararne le funzioni avanzate
  • non svolgiamo compiti ripetuti a parte la ricerca di informazioni
  • gli argomenti di ogni sito sono diversi e bassa è la nostra competenza nella maggior parte di essi
  • le pagine hanno una densità informativa (testi, titoli, link) di gran lunga superiore a quella dei software.

Non solo: anche sul piano dell’interazione vera e propria troviamo delle differenze. Molto spesso infatti:

  • gli oggetti d’interfaccia non sono standardizzati (i bottoni possono essere resi con immagini e non essere facilmente riconoscibili, i menu sono diversi da sito a sito e dobbiamo ricostruire i tratti comuni per capire che son menu, i link non hanno lo stesso colore, in alcuni casi i link visitati sono differenziati e in altri no, e potremmo continuare…)
  • gli stessi paradigmi d’interazione sono differenti: non vale più il doppio click, ma il click singolo (infatti è molto alta la percentuale di utenti che durante i test di usabilità su siti web cliccano inconsapevolmente due volte invece di una, a dimostrare che la confusione, percepita o meno, c’è)
  • il trascinamento non è possibile (se non in interfacce evolute, in ajax, flash, java, ecc.)
  • i tempi disponibili per l’apprendimento sono molto minori che nei software: data l’elevata competitività dell’ambiente, prima si riesce ad usare un sito e meglio è
  • ed è pure più difficile identificare scenari d’uso precisi per i compiti, che sono spesso vari e differenziati per utenti diversi.

Queste considerazioni hanno incoraggiato a seguire nuovi filoni di ricerca. Le ricerche mirano a costruire nuovi modelli teorici che ci consentano di capire meglio l’interazione degli utenti con il web, ma stanno anche iniziando a svecchiare la tradizionale cassetta degli attrezzi dello specialista di usabilità. Fra le ricerche che hanno dimostrato particolare efficacia ci sono quelle basate sulle valutazioni semantico-lssicali. In particolare si segnalano la teoria dell’Information foraging di Peter Pirolli e Stuart Card e il Cognitive Walkthrough for the web di Kitajima Blackmon e Polson.

Entrambe le teorie si basano sulla considerazione che sul web gli utenti cercano (e seguono) la voce che a loro sembra più corrispondente con i propri bisogni informativi. Danno dunque la prevalenza all’aspetto semantico dell’interazione, ma, e questa è una decisa novità, i modelli riescono a tenere in considerazione anche alcuni degli aspetti contestuali (conoscenze degli utenti, scopi, situazione).

Seguire il profumo dell’informazione

L’information-foraging introduce il fortunato concetto di scent of information, o profumo dell’informazione, definito come:

“la percezione imperfetta che l’utente ha del valore, del costo e del percorso di accesso a fonti di informazione ottenuto attraverso stimoli prossimali, come i link nel web.”

L’information-foraging è una teoria che ha sviluppato un proprio modello computazionale del comportamento dell’utente, lo Snif-act (parlando di profumo, che si può fare se non sniffare?…).

In questo modello sono previste una memoria dichiarativa e una memoria procedurale. Nella memoria dichiarativa viene rappresentato ciò che è attivato e di cui l’utente è avvertito in un certo momento, come ad esempio i link in una pagina web. Essendo basata su un insieme di associazioni fra pezzi di informazioni, la memoria dichiarativa stabilisce ciò che è più probabile attiri la nostra attenzione in un certo momento, stabilendo la rilevanza di certe informazioni rispetto ad un certo fuoco dell’attenzione corrente.

La memoria procedurale decide invece ciò che si può o non si può fare, in termini di condizioni del tipo “Se… allora…”. Sono le regole da applicare in ogni fase durante la simulazione del comportamento. In questo modello le informazioni sono confrontate con un database di “profumi dell’informazione”. Le stime ricavate da questo database sono basate sulle co-occorrenze di parole in un corpus tipico di testi, integrato con parole specifiche provenienti dall’ambito web.

Il modello si dimostra in grado di fare due previsioni:

  1. Decidere quale link, fra quelli disponibili in una pagina, ha la maggiore probabilità di essere selezionato da un utente che abbia un certo scopo attivo nella memoria dichiarativa
  2. Anticipare quale sarà il punto di abbandono del sito (quando il profumo dell’informazione è inferiore ad una soglia minima).

Confrontando il comportamento del modello con quello di utenti reali si è constatato che i link indicati come più probabili dal modello erano quelli che nella realtà la maggioranza degli utenti seguiva. Quando il modello rilevava un basso profumo dell’informazione sulla pagina, allora si verificava nella realtà il più alto numero di abbandoni. Durante i test empirici sul modello è emersa una differenza fra utenti esperti e utenti novizi rispetto alla materia di cui si occupa il sito (competenza di dominio). E’ necessario dunque ogni volta cambiare le regole di produzione del modello a seconda del dominio e del livello di competenza del tipo di utente da simulare.

Una simulazione cognitiva per il web

Nel Cognitive Walkthrough for the web la logica è simile, anche se i dettagli sono diversi. Secondo questo modello, il comportamento dell’utente è diviso in più fasi: dato un certo obiettivo, l’utente fa un parsing (un’elaborazione) della pagina, crea macro-oggetti visivi, si focalizza su uno di questi oggetti e confronta le etichette verbali ivi presenti con il suo obiettivo, fino a scegliere il link che gli sembra più simile al suo obiettivo. La comparazione avviene attraverso un meccanismo di rappresentazione della conoscenza detto LSA, Analisi semantica latente. LSA è un modello di rappresentazione della conoscenza ad elevata dimensionalità, dove per ogni coppia di termini vengono costruiti dei vettori di correlazione basati sulla co-occorrenza di questi termini in un corpus di testi che rappresenta la conoscenza tipica dell’utente (si tratta di testi comunemente studiati a scuola a seconda dell’età considerata). La correlazione è basata sui coseni dei vettori e varia fra -1 e 1.

Anche il CWW è stato testato empiricamente, e si è rivelato in grado di identificare con buona precisione 3 tipi di problemi:

  1. Identificare titoli o link che sono troppo simili fra loro e possono così generare confusione concettuale nell’utente, che non saprebbe distinguerli chiaramente. Ogni coppia che ha un coseno superiore a 0,6 è considerata troppo simile, e viene suggerita la revisione di uno dei due termini.
  2. Identificare termini che sono poco familiari ad un certo tipo di utente, attraverso la lunghezza del vettore di correlazione (che rappresenta la frequenza di quel termine nel corpus di testi considerato).
  3. Identificare titoli e link che non sono simili fra di loro, ma che competono in relazione ad uno specifico obiettivo. Sebbene in generale l’utente non giudicherebbe simili quei due termini, li può giudicare egualmente rilevanti in relazione ad uno specifico obiettivo.

Pregi e limiti dei modelli semantici

Questi modelli sono giovani e promettenti, ma hanno tuttavia dei limiti. Il più evidente è che, essendo stati sviluppati in inglese, attendono una validazione in lingua italiana (e in altre lingue, naturalmente). L’italiano è una lingua meno paratattica dell’inglese, ed è possibile che ci siano delle difficoltà nel confermare i risultati del modello (è capitato anche nell’adattamento degli indici di leggibilità).

Inoltre bisogna fare molta attenzione a come si formulano gli obiettivi dell’utente. Solitamente si usano frasi come: “Ho bisogno di cercare il nome del regista del film con Colin Firth che è uscito qualche anno fa e che si ambientava in epoca vittoriana”. Se ben formulate, queste frasi definiscono anche delle informazioni sulle competenze possedute dall’utente. Un esperto di cinema (o qualcuno con una miglior memoria per i nomi…) direbbe infatti “Chi è il regista del film inglese “L’importanza di chiamarsi Ernesto” uscito nel 2003”?, il che darebbe vita ad associazioni e correlazioni differenti.

Il fatto che lo stesso obiettivo si possa esprimere in maniera verbale, anche con una formulazione complessa, e il fatto che questa formulazione decida le correlazioni con i link e i titoli presenti nella pagina è un punto di forza, perché una formulazione verbale di questo tipo è in grado di incorporare parte delle competenze e delle conoscenze dell’utente, ma può risultare in una debolezza nel momento in cui la formulazione verbale non sia abbastanza precisa, tanto da dare vita a correlazioni e valutazioni sbagliate.

Entrambi i modelli sono poi ancora carenti nella considerazione di altre variabili, come quelle visuali, e per tipi di compiti non basati sulla ricerca di informazioni, ma hanno il merito di porre l’attenzione degli analisti e dei progettisti sull’importanza determinante dei fattori lessicali e semantici nella progettazione di siti. Ormai è chiara una cosa (che non lo era affatto quando l’usabilità si occupava solo di software): la scelta delle etichette verbali è una delle chiavi della facilità d’uso dei siti.

Queste etichette, questi termini andrebbero sempre testati e andrebbe sempre ponderata con attenzione la possibilità che alcuni siano troppo simili, che si confondano fra di loro, o che siano poco significativi per l’utente in rapporto al link di destinazione. Il fatto che si studino strumenti in grado di dare delle stime di queste somiglianze o di questa significatività è una prospettiva senza dubbio intrigante.

Nota: una prima versione di questo articolo è apparsa a marzo 2005 sulla rivista “Internet Pro”. Questa versione è aggiornata e leggermente modificata.

Usabilità e caratteri tipografici

La maggiore difficoltà della lettura a monitor (circa il 25% più
lenta che su carta) ha posto a designer e progettisti la necessità
di trovare dei modi che potessero bilanciare queste difficoltà.

Secondo la ricerca psicologica, la comprensione della lettura si compone
di due ordini di processi:

  1. il primo è percettivo e riguarda la corretta identificazione
    e decodifica delle lettere che compongono le parole e le frasi.
  2. il secondo è di livello più elevato e riguarda la
    costruzione di una rappresentazione mentale
    del significato del
    testo, a partire dalla decodifica svolta dal primo processo.

Questa rappresentazione mentale viene costruita a partire da rappresentazioni
di informazioni microstrutturali, che vanno ad attivare schemi e conoscenze.
Vengono quindi costruite rappresentazioni macrostrutturali e infine un
modello mentale coerente del significato del testo.

Rimandiamo questo secondo aspetto del processo di comprensione della
lettura ad un’ulteriore approfondimento (o ad uno dei corsi di web
writing
che proponiamo), e soffermiamoci sul processo primario,
quello della corretta detezione di caratteri e parole. E’ infatti evidente
che il monitor va ad incidere proprio su questo processo, a causa:

  • della minor risoluzione rispetto alla carta
  • dell’emissione luminosa dei fosfori (più affaticante della
    carta)
  • dell’innaturale posizione nella quale ci si trova ad affrontare l’atto
    della lettura su monitor.

La nascita degli screen-font

Queste difficoltà hanno spinto diverse aziende a commissionare
a designer di talento l’ideazione di speciali set di caratteri (le font-family)
che potessero in qualche modo ovviare alla maggior difficoltà di
lettura che si verifica su monitor. In particolare, la Microsoft ha commissionato
al font-designer Matthew Carter l’ideazione di caratteri che potessero
essere utilizzati per il proprio sistema operativo. L’operazione aveva
un doppio obiettivo:

  • da una parte commerciale: non è infatti infrequente (anzi,
    è la fonte di reddito principale per molti font desiger) che
    un’azienda commissioni per il suo logo o per la sua comunicazione aziendale
    una famiglia di caratteri personalizzata, che rifletta la filosofia
    dell’azienda e la renda unica dal punto di vista visivo e tipografico.
  • dall’altra, la ragione è pratica: avere delle lettere che
    si leggano con facilità su monitor è particolarmente importante
    per il miglioramento delle proprie interfacce.

Già il sistema operativo Macintosh utilizzava da tempo per i messaggi
di sistema un font particolare, il Chicago, dall’aspetto tozzo
e lineare, con poche linee oblique, facile da leggere anche a risoluzioni
piuttosto basse.
Matthew Carter (grazie anche al prezioso contributo di Thomas Rickner),
basandosi su lunghi studi ed esperimenti, ha identificato alcuni parametri
che gli hanno consentito di progettare i cosiddetti screen-font
per Microsoft: il Verdana (nel 1994) e il Georgia (in seguito).

Perché due? Se il Verdana nasce, come abbiamo detto, per essere
usato con il sistema operativo Window, il Georgia è stato pensato
come alternativa al Times per il nascente progetto del Microsoft Network.
Entrambi i tipi di caratteri vengono oggi distribuiti e installati gratuitamente
assieme al browser di casa Microsoft, Internet Explorer. Ciò che
ci spinge a parlare di entrambi questi due tipi di carattere è
che essi appartengono alle due categorie maggiori nelle quali vengono
classificati i font: caratteri con grazie (il Georgia) e senza
grazie
(il Verdana).

La grazia perduta

Un tipico esempio di carattere con grazie è il Times (o
il New York per gli utenti Mac). Le sue lettere contegono delle piccole
appendici che accompagnano le linee ascedenti o discendenti "verso"
la lettera successiva. Si ritiene che l’uso faciliti la lettura su carta
e abbellisca i caratteri, soprattutto nel caso di paragrafi lunghi e densi.

Un carattere (elle maiuscola) con le grazie evidenziate

L’altra categoria di caratteri è detta senza grazie, o ‘bastoni‘,
perché le sue lettere mancano completamente di queste appendici:
i caratteri sono composti da linee che terminano in maniera netta, come
dei bastoni, appunto. Degli esempi sono l’Arial, il Verdana, l’Impact,
l’Helvetica, il Chicago.

Confronto fra caratteri con e senza grazie

Nell’uso tipografico comune queste due categorie di caratteri assolvono
spesso funzioni logiche complementari: grazie alla loro maggior
facilità di lettura in testi lunghi e con dimensione ridotta, i
caratteri con grazie vengono usati per il corpo degli articoli.
Viceversa, i caratteri bastoni, non sempre adatti a testi lunghi, appaiono
più perentori e autorevoli nel rappresentare i titoli degli
articoli
, a dimensioni più grandi, oltre a fornire un utile
contrasto visivo rispetto al carattere utilizzato per il corpo degli articoli.

Su monitor, e quindi su web, le cose come abbiamo visto sono un po’ più
complesse. I due font disegnati da Carter hanno entrambi la caratteristica
di essere più facili da leggere su monitor. Il principale problema
dei monitor è che hanno una bassa risoluzione: di conseguenza non
consentono ai caratteri di rimpicciolirsi mantenendo la nitidezza:

confronto fra testi a 7 e 11 pixel con antialiasing

In pratica, come si vede, con il ridursi delle dimensioni del carattere,
il numero di pixel presente sul monitor non è sufficiente a rappresentare
in maniera nitida i dettagli del carattere, che diventa sfocato.

L’anti-aliasing

Questo problema è l’effetto dell’antialiasing a basse dimensioni.
Di cosa si tratta? L’antialiasing è una sorta di sfumatura che
rende il contorno delle lettere più morbido
attraverso l’utilizzo
di pixel intermedi fra il colore di primo piano e di sfondo. L’antialiasing
nasce come espediente per superare la seghettatura dei contorni delle
lettere dovuta alla bassa risoluzione del monitor, ed è molto efficace
per dimensioni del carattere più grandi. Come abbiamo visto, però,
è una soluzione che a piccole dimensioni crea una sfocatura fastidiosa
che ostacola la lettura.

Confronto fra caratteri ingranditi, con e senza antialiasing

I browser e i sistemi operativi sono impostati in maniera da eliminare
l’antialiasing (a meno di non intervenire nelle preferenze), ma ciò
non sempre risolve il problema: le lettere sono, sì, più
definite, ma anche più irregolari, sopratutto a piccole dimensioni:

confronto fra testi a 7 e 11 pixel senza antialiasing

Il problema non riguarda solo le grazie o la nitidezza del carattere.
Su monitor spesso è anche l’avvicinamento fra i caratteri
a creare qualche problema. Alcuni programmi spaziano in maniera difettosa
alcune lettere, che si trovano così più vicine di altre
all’interno della stessa parola, creando raggruppamenti irregolari e ostacolando
la lettura. Nell’immagine qui sopra, la spaziatura fra le lettere ‘ix’
e le lettere ‘el’ nella parola ‘pixel’ sono sbilanciate anche a 11 pixel.

Omettiamo altri dettagli tecnici, per arrivare alla soluzione che Carter
ha utilizzato, soprattutto con il Verdana: questo set di caratteri appartiene
alla categoria ‘senza grazie’, ed elimina così i problemi specifici
legati alle piccole appendici dei caratteri. In più è particolarmente
curata la spaziatura fra le lettere, che è stata resa uniforme.
Fra gli altri pregi del Verdana va citato l’ottima resa del grassetto,
il bold tipografico, che serve ad enfatizzare i caratteri. Avendo pochi
pixel a disposizione, anche l’ingrossamento del carattere può essere
un problema, ma Carter lo ha brillantemente risolto.

Conseguenza: il carattere ‘perfetto’ per la lettura a monitor, anche
a dimensioni piccole.
Il Georgia, che pure non ha avuto l’enorme successo del Verdana anche
se sta conoscendo una stagione particolarmente fortunata dal momento che
un crescente numero di siti inizia ad utilizzarlo, è un carattere
con grazie particolarmente ben spaziato, e conserva una qualche parentela
stilistica con il più famoso Palatino.

Le dimensioni contano

Risolti dunque i problemi di leggibilità su monitor?
Magari. In realtà, la lettura è ancora faticosa: se miglioramento
c’è stato non è tale da farci gridare al miracolo. Le risoluzioni
dei monitor sono sempre basse, e, soprattutto, molti designer con la vista
di una lince continuano a progettare più per le proprie diottrie
che per quelle del pubblico medio, abbassando troppo la dimensione dei
caratteri.

Le sorprese maggiori vengono però da una serie di ricerche sulla
leggibilità dei font sul monitor condotte da Michael Bernard
et al
. (Vai
alla ricerca
, fuori da questo sito).
Secondo queste ricerche, a dimensioni dai 10 pixel in su, non vi
sarebbero significative differenze nell’accuratezza della lettura fra
gli screen-font (Verdana e Georgia) e font più tradizionali come
il Times e l’Arial. Non solo: la velocità di lettura è generalmente
maggiore per Times e Arial rispetto al Courier (il carattere che assomiglia
alla macchina da scrivere) e al Georgia!

Le sorprese non finiscono qui. La ricerca ha rilevato anche alcuni parametri
soggettivi, come la leggibilità percepita. Ovvero, l’impressione
di maggior o minor leggibilità che diversi font davano ai soggetti,
indipendentemente dalla prestazione reale. Ebbene, la leggibilità
percepita è generalmente maggiore per Courier, Arial e Georgia!

La piacevolezza dei font, invece, cambia ancora le carte in tavola. Il
Georgia sembra essere più attraente di Arial e Courier, e il Times
sembra più piacevole del Courier. Tuttavia, la scelta del font
preferito cambia ancora i risultati, a dimostrazione di quanto difficili
siano queste ricerche: il carattere scelto come preferito dai soggetti
(di età comprese fra i 18 e i 55 anni) è il Verdana, che
ha anche le prestazioni complessivamente migliori: non eccelle,
cioè, in alcuna categoria, ma ha risultati buoni un po’ in tutte
le misure.

Ulteriori ricerche sembrano necessarie, e altre ne sono state già
condotte, con soggetti di diverse età, dagli stessi autori. I risultati
sono ancora più complessi, e non li riassumeremo qui. Questo genere
di studi è però importante perché ci ricorda che
è bene evitare di lasciarsi andare con troppa leggerezza ad affermazioni
assolute: molte volte dipende davvero da quale angolatura si guardano
le cose (detto in maniera più rigorosa: con quale metodologia e
quali assunti si conducono le ricerche). Per quanto riguarda la pratica
sui nostri siti, Verdana e Georgia hanno comunque prestazioni discrete,
al pari dell’Arial, e sono scelte relativamente ‘sicure’.

Comunque decidiamo di comportarci, è importante mantenere almeno
una ferrea coerenza: a funzione uguale dovrebbe corrispondere sempre
tipo, stile e dimensione di carattere uguale. Niente di più
sciatto che veder utilizzato per gli articoli una volta l’Arial e una
volta il Verdana… oppure lo stesso carattere, ma con dimensioni diverse!
Ma queste sono norme di buon design e di buon senso, prima ancora che
di usabilità. Il buon senso non sempre dà le risposte migliori,
ma in questo caso pare essere una bussola più che affidabile e
a buon mercato rispetto a ricerche utili, ma dai risultati complessi e
dalle interpretazioni ancora non definitive.

Scrivere per il web

Leggere sul monitor è più faticoso che su carta. La risoluzione
è più bassa e la lettura più lenta del 25%. Come
conseguenza gli utenti del web non leggono, ma scorrono il testo
alla ricerca di frasi o parole che attirino la loro attenzione.

Scrivere per il web diventa così un mestiere in parte diverso
dallo scrivere su carta
, anche se è basato sulle stesse qualità
di fondo. Non è infatti possibile prescindere da una buona sintassi
e una corretta grammatica!
Sul web vi sono però ulteriori criteri
di scrittura e composizione che vanno seguiti per facilitare la lettura,
così come vi sono errori da non fare assolutamente.
Riassumeremo le considerazioni sviluppandole in tre ambiti. Parleremo
prima di come disporre i contenuti, poi di quale stile utilizzare,
e infine ci occuperemo degli espedienti visivi che facilitano la
lettura su monitor.

Il contenuto.

Il web è il regno della concretezza e della concisione.
Questa potrebbe essere l’unica regola, ma lasciateci scendere un po’ più
nel dettaglio…

  1. Scrivete seguendo le quattro massime di Grice (uno studioso
    della comprensione dei testi):

    – scrivi la quantità di informazione necessaria: non
    di più, non di meno (massima della quantità);
    – scrivi ciò di cui hai prove (sii sincero, massima della
    qualità);
    – sii pertinente: dì quello che è rilevante e coerente con
    l’argomento (massima della relazione);
    – sii chiaro (massima del modo).

    Grice prevedeva anche le violazioni alle massime, ma non preoccupiamocene!…
    Sul web, meno violazioni si fanno, meglio è!

  2. Mettete i concetti più importanti in cima. Non scrivete cioè
    per arrivare a delle conclusioni attraverso un ragionamento, come insegnano
    a scuola, o come avviene nei romanzi, con il cosiddetto climax. Scrivete
    in maniera giornalistica
    , scoprendo le vostre carte fin da subito,
    con l’esposizione della conclusione o della notizia. I dettagli vanno
    aggiunti in seguito. Se la lettura viene troncata a metà, l’utente deve
    aver già incontrato i concetti principali. Un errore abbastanza
    frequente (l’ho fatto anch’io) è quello di instaurare una specie di
    gioco con il lettore, incuriosendolo, fornendo dati oscuri, in
    maniera da creare un aumento di interesse che lo spinga a leggere. Be’,
    non funziona. I lettori non vogliono perdere tempo in rete, e
    gradiscono i fatti, non i giochini, per i quali si rivolgono a siti
    specialistici. L’utente vuole sapere subito se troverà qualcosa che
    lo interessi.
    Se la prima frase è promettente, vorrà saperne di
    più. Tale modo di scrivere è talvolta definito a “piramide rovesciata”.
  3. Che le prime frasi siano le più importanti vale non solo per
    l’intero testo, ma anche per i singoli paragrafi. Poiché la gente
    non legge, ma scorre il testo, rendete possibile la comprensione anche
    solo attraverso le frasi principali poste in cima ai paragrafi o attraverso
    le frasi chiave, evidenziate.
  4. Dedicate un periodo ad un solo concetto. Quando avete esaurito
    quell’argomento e passate al successivo, cambiate periodo. Questo faciliterà
    visivamente, ma anche concettualmente, il processo di comprensione del
    lettore, già abbastanza ostacolato dalla difficoltà di lettura.
  5. Dominate il contenuto. Cambiate disposizione ai concetti, per
    cercare quella più efficace. Non abbiate timore, se il tempo non vi
    manca, di provare varie strade.

Lo stile:

  1. A causa soprattutto delle difficoltà nella lettura, il web
    vuole una scrittura pratica, concisa
    . E’ meglio evitare di essere
    troppo letterari, eleganti, involuti. Togliete tutte le parole superflue.
    Siate oggettivi, concisi e precisi: esprimete in maniera diretta
    i contenuti, senza perifrasi o espressioni vaghe. Via gli aggettivi
    non veramente utili. Evitare le frasi lunghe e i periodi con troppe
    coordinate e subordinate. Aboliti i gerghi, il marketese, il politichese,
    i termini incomprensibili. Argomentate il più possibile attraverso i
    fatti, tentate di separarli dalle opinioni, che pure è lecito
    esprimere.
  2. Siate divertenti, il che non significa essere umoristici. Lasciate
    perdere lo humor, i giochi di parole: da una parte eventuali utenti
    internazionali non lo capiranno, dall’altra distrarreste dal contenuto.
    ‘Siate divertenti’ significa ‘siate brillanti’, non rendete il
    vostro testo freddo e noioso. Questo non si insegna facilmente, anche
    se vi sono delle tecniche. Il ritmo sincopato, per esempio. Evitate
    frasi che abbiano tutte la stessa cadenza. Ad un periodo più lungo anteponete
    e posponete sequenze di frasi più brevi. Se vi viene in mente un commento
    su quanto state scrivendo, inseritelo pure: sembrerete più umani. L’importante
    è non esagerare.
    In una parola, dovreste divertirvi mentre scrivete,
    trasmettere un certo entusiasmo, ma al tempo stesso rimanere professionali.
    Facile, eh?
  3. Ci vuole buon senso: curate anche una certa scorrevolezza,
    non tagliate il testo con l’accetta solo per rispettare queste regole.
    Ma comunque non lasciatevi andare come fareste su carta. Le frasi brillanti,
    i periodi articolati sono solo fatica in più in un compito che è già
    faticoso di suo.

Espedienti visivi:

La lettura si fonda su due processi: il primo consiste nel riconoscimento
visivo
, il secondo nell’estrazione del significato. Il secondo
processo (l’estrazione del significato) viene ostacolato da una cattiva
percezione. Per migliorare la percezione visiva del vostro testo potete
usare i seguenti espedienti:

  1. Spezzate i periodi andando frequentemente a capo. Un unico
    blocco di testo viene visto come un ostacolo insormontabile.
  2. Evidenziate le parole chiave: per farlo è meglio utilizzare
    il grassetto, piuttosto che il corsivo come si usa su carta, perché
    il monitor, composto da pixel orizzontali e verticali, non rende bene
    i caratteri disposti in diagonale, come nel caso del corsivo. Potete
    anche usare un colore per evidenziare il testo, ma accertatevi che lo
    stiate effettivamente enfatizzando! Dovete usare un colore saturo e
    non troppo luminoso (se usate il fondo chiaro). Il colore che più risalta
    all’occhio è il rosso. Ma se lo usate (come in questo sito) per i link,
    evitate di usarlo per termini che non sono linkati: generereste confusione
    negli utenti. Alle volte anche lo stesso link, però, può servire ad
    evidenziare parti di testo. Usate comunque i link con parsimonia, e
    solo per informazioni secondarie e non determinanti per la comprensione
    del discorso, perché sono dei distrattori, dato che danno all’utente
    la tentazione di seguirli.
  3. Non utilizzate una colonna di testo troppo larga, perché gli
    occhi faticano a mantenersi su una riga lunga. Inoltre siamo abituati
    alle colonne di un giornale.
  4. Utilizzare dove possibile elenchi numerati o con puntatore,
    come questo. Le voci risultano chiaramente divise e spaziate. E’ meglio
    naturalmente mettere le voci più importanti in alto.
  5. Gli articoli non dovrebbero essere troppo lunghi. Assolutamente
    vietato spezzarli su più pagine, una scomodità inaudita. Nielsen consiglia
    semmai di dividere l’argomento in più articoli diversi.
  6. Infine, tutto questo sarà vano se non scegliete colori che vi assicurino
    un buon contrasto.
    Caratteri neri su sfondo bianco offrono il contrasto
    migliore. Il negativo, cioé bianco su nero, per alcuni è più gradito,
    per altri no. In ogni caso dà un tono cupo e vagamente tecnologico alla
    pagina. Valutate anche l’impatto emotivo, il calore, la sensazione che
    la pagina trasmette. Fate attenzione ai colori che scegliete: devono
    dare un buon contrasto anche per daltonici e discromatici. I disturbi
    nella percezione del colore sono più diffusi di quanto non si creda.
    Forse non lo sapete, ma conoscete certamente qualcuno che ha problemi
    di questo tipo. Ecco perché il nero su bianco rimane a mio avviso ancora
    la scelta migliore.
  7. Utilizzate un carattere tipografico standard. Oltre a essere
    facilmente riconosciuto, il che aiuta la lettura, eviterete di creare
    inconvenienti visivi a quegli utenti che non dispongono di una particolare
    font. I caratteri più diffusi sono: il times, usato molto in
    stampa, con le grazie che aiutano la lettura; l’arial e il verdana,
    senza grazie, più leggibili su monitor specialmente con caratteri di
    dimensioni piccole (soprattutto il Verdana); il courier, carattere
    con grazie monospaziato, che ricorda la macchina da scrivere.

A questi suggerimenti va aggiunta una considerazione più progettuale.
Nelle prime pagine non ci devono assolutamente essere testi lunghi
come questo (ma neanche un quarto di questo!). Solo lanci di notizie,
civette, ben organizzate sulla pagina, con buoni titoli e sommari.
Organizzate quelle pagine assieme ad un buon designer: non è (solo)
un problema di scrittura, ma di grafica.
Nelle pagine di destinazione, come questa, i testi possono (e a volte
devono) essere più lunghi. Se un utente è interessato e voi avete seguito
i suggerimenti, farà lo sforzo, oppure salverà la pagina e la leggerà
con calma, magari dopo averla stampata.

Questi consigli non sono affatto semplici da seguire. Spesso è
necessario un laborioso processo di riscrittura, di adattamento e di ‘potatura’
del testo, soprattutto se lungo. Affidatevi ad un buon web editor, ammesso
che ve ne siano di disponibili, che revisioni lo scritto dell’autore.
Gli articoli di Usabile.it vengono mediamente riscritti o corretti una
decina di volte. Per produzioni giornaliere questo non è possibile,
ma naturalmente le produzioni giornaliere non vivono di articoli così
lunghi. Ad ogni buon conto, il tempo passato a curare i contenuti è
sempre tempo ben speso, soprattutto se questi dovranno durare nel tempo.